Possiamo considerare furbizia
quell’intelligenza limitata e comunque applicata per ottenere un fine personale
scavalcando quella di altri, ritenuti potere essere usati.
La differenza tra un furbo e un
intelligente non è, tuttavia, data da una quantità di essa facoltà a
comprendere, ma il modo in cui viene applicata o, più specificamente,
l’ancoraggio ovvero ancora e propriamente il fine per il quale risulta posta in
essere. L’intelligente come razionalità che si dispiega per l’apertura
peculiare a un siffatto pensiero risulta consapevole che di fronte a sé ci sia
una persona con la quale interagire e non un oggetto da raggirare. Il suo
obiettivo non è costituito, dunque, dal raggiungimento di scopi particolari
perché essa ragione di configura in quella universalità nella quale rientra la
persona che sta di fronte. Da considerare altresì è ancora il fatto che non
presentandosi essa facoltà vincolata alle ristrettezze nelle quali è visto
muoversi esso esistente arriva a percorrere spazi dai quali emergere visioni
più ampie così che a beneficiarne sono le stesse intuizioni generali. È il caso
di ricordare quanto constatato da Platone a proposito di quei giovani buoni e
timidi rispetto a quegli altri che sembravano avere il mondo tra le mani.
Quando però quelli, avendo conosciuto attraverso essi altri le cattiverie che il
loro animo non concepiva, mettendo insieme i termini pervenivano a ribaltare la
situazione, risultando gli altri limitati e letti così come un libro, emergendo
così come ridicoli nelle loro meschine macchinazioni che non potevano
realizzarsi in alcun modo.
Una lezione del prof. Addona
riportata da Francesco Boscaino, I C.
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