Per spiegare il passaggio da potenza ad atto ma, soprattutto e specificamente, per individuare l’intuizione nel suo esprimersi, Aristotele ricorre all’intervento di un intelletto attivo, che dovrebbe rappresentare la capacità di cogliere quanto in essere per una intuizione. Esso intelletto umano, sembrerebbe questa l’argomentazione di un tale filosofo, è constatato non operare sempre. È visto, infatti, intervenire talvolta ed altre non. Proprio da una tale non continuità ovvero da un non rivelarsi sempre presente sorge il problema: Per il fatto, dunque, che l’intelletto non agisca sempre sembrerebbe risultare negato un suo essere. Esso, infatti, che talvolta coglie il legame e il passaggio da qualcosa a qualcos’altro altre risulta assente. Ove rappresentasse un essere dovrebbe svolgere il proprio ruolo. A essere considerato sembra proprio quale un essere che però non può essere ritenuto tale poiché un essere non risulta solo a tratti per poi scomparire.
Al riguardo, però, basterebbe
considerare l’uomo da sveglio e da dormiente. Trattandosi tuttavia di un
qualcosa da venire a configurazione ovvero tale da esprimersi quale essere,
Aristotele arriva a considerare un quid sul quale fare leva e tale da sostenere
quell’operazione che non riesce a essere spiegata. L’uomo, infatti, non è
ritenuto potere porre in essere alcunché potendo solo rappresentarsi una
conoscenza a un essere corrispettiva. Non potendo affidarsi nemmeno a una
potenzialità, poiché questa attiene all’essere, commette la spiegazione ad un intelletto attivo che viene, in una
qualche modalità, in aiuto all’intelletto dell’uomo.
Esso intelletto attivo sembrerebbe
però acquistare una connotazione quasi divina. Superiore ed esterno a quello
dell’uomo è considerato soccorrere l’altro per portare questo a essa
intuizione. In una tale ritenzione Aristotele arriva quasi a comportarsi in un
modo non diverso da Platone, pure condannato per avere posto in essere un
inutile doppione costituito dal mondo delle idee rispetto a quello sensibile. Nel
caso in esame, infatti, Aristotele, ancorché tentennante, appare comunque richiamare
un’altra realtà anziché risolvere il problema concentrandosi solo sull’intelletto
dell’uomo.
Noi moderni, riportando le
considerazioni del professore Addona, potremmo ritenere che essa intuizione sia
prodotta da quell’attività che riesce a collegare termini fino a farne emergere
altri che, prima del loro comparire in una siffatta configurazione ovverosia
intuizione, risultavano non noti. Proprio il dispiegarsi di quanto inseguito
arriva a essere ritenuto portato da una illuminazione e specificamente per il
fatto che a risultare evidenti sono le relazioni che forniscono una spiegazione
di quanto prima, monco, si delineava, appunto, in una oscurità.
Se l’uomo, altresì, intuisse
continuamente si avvicinerebbe alla posizione dalla quale un dio è reputato
cogliere, in uno, il tutto. Al di là di tanto risulterebbe quell’uomo proiettato
fino a comprendere i vari legami nel loro dispiegarsi, venendo in tal modo ad
avvicinarsi a quella condizione superiore.
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