Analizzando il seguente passo di Kant, riguardante la
legge morale, all'interno della Critica della ragione pura pratica: “La prima
veduta, [il cielo stellato] di un insieme innumerabile di mondi, annienta, per
così dire, la mia importanza di “creatura animale”, che dovrà restituire la
materia di cui è fatta al pianeta (un semplice punto nell'universo), dopo
essere stata dotata per breve tempo (non si sa come) di forza vitale. La
seconda, [la legge morale] al contrario, innalza infinitamente il mio valore,
come valore di una “intelligenza”, in grazia della mia personalità, in cui la
legge morale mi rivela una vita indipendente dall'animalità, e perfino
dall'intero mondo sensibile: almeno per quel che si può desumere dalla
destinazione finale della mia esistenza in virtù di questa legge; la quale
destinazione non è limitata alle condizioni e ai confini di questa vita, ma va
all'infinito.”, potremmo pervenire ad una definizione di “nobile”, ricavabile,
per converso, altresì, da quella di “bruto”, “canaglia”, termini questi che
vanno ben oltre quelli di uomo rozzo, limitato nei modi, che non ha il senso
dell'altro, magari individualista, che tende ad essere violento ed aggressivo
e, relazionandosi con una persona, non ne percepisce l’essere più peculiare costituito
propriamente dal rappresentare una identità universale e di fronte.
Il
“nobile”, dunque, da intendersi come un soggetto non limitato in alcun modo, il
quale, per usare ancora le parole di Kant, si eleva INFINITAMENTE, che si
distingue dagli animali per la ragione (che un non filosofo potrebbe definire
in modo ancora non adeguato come intelligenza) e riesce non solo a contenere ma
a far soggiacere i propri istinti, sacrificando quindi quelle che arrivano a
concretizzarsi come richieste che potrebbero portare ad un proprio e
particolare utile. Il bruto, ovverosia l’individualista, invece non riesce ad
elevarsi ad un piano più generale nel quale l’altro possa essere ritrovato ed
agisce mosso unicamente da passioni ed impulsi soprattutto primordiali, i quali
possono spingere anche alla violenza più marcata. Da considerare non
estranei a tanto quegli stessi che non si proiettano contro per ottenere e però
solo per un timore o anche per motivazioni subentrate fino a costituire una
psiche che alla prima occorrenza può dispiegarsi diversamente per fattori
intervenuti. Non diverso, dunque, il discorso che si configura allora che a fare
il suo ingresso sia una paura, la quale giunge sia a trattenere da azioni che
possano mettere a rischio la vita di un tale esistente che a prendere il posto
di quella generalità che contraddistingue il soggetto che si dispiega rispetto
ai particolarismi utilitaristici. Un siffatto comportamento difensivo si
configura, infatti, sulla stessa linea benché arrivi a svolgersi in una
direzione che possiamo ritenere opposta a quella additata dalla volontà che
insegue interessi in positivo. Allora, comunque, che essa preoccupazione invada
l’esistente costui tende a conservarsi sacrificando ogni cosa che venga a
prospettarsi di fronte. L’azione eroica invece, che possiamo ritenere quale
corrispettiva di una “nobiltà”, sacrifica appunto quanto l’altra pone in essere
a tutela ovverosia a conservazione di esso esistente.
Il
non posizionarsi, quindi, esclusivamente da uomo-animale proietta il soggetto
verso quel comportamento che può essere detto sia eroico che nobile. Chi si
sente investito da una tale spinta universale, per usare ancora la scoperta
kantiana, si sforza di superare quella paura per la quale si abbasserebbe da
soggetto ad esistente particolare. Sia in pace dunque che allora che, purtroppo,
si trovavano in guerra o in altre situazioni pericolose coloro che avvertivano
quell’imperativo categorico kantiano, non arrivavano ad anteporre la paura a
ciò che ritenevano da doversi esprimere in quanto valido universalmente. Si
trattava di muoversi quali soggetti o di annullarsi propriamente in quanto
tali.
Con
quanto espresso in questo passo, dunque, Kant arriva ad individuare
scientificamente il percorso possibile ad un soggetto che per secoli era stato,
ancorché potentemente posto in essere da alquanti, non individuato
scientificamente ma ritenuto attenere ad una nobiltà. L’importanza di essa
critica emerge, non fosse che solo per il discorso da noi affrontato, dal fatto
che è risultato dimostrato scientificamente ovvero in un sistema ancorato su
una effettività da una universalità costituita quanto pure da tanti espresso
ancorché attribuendo tali azioni ad una eroicità denotativa di una nobiltà di
animo quando non rispondente ad uno status dato dalla discendenza per la quale
gli appartenenti ad alcune famiglie erano ritenuti “diversi” da quelli che si
comportavano solo in funzione della propria esistenza, meritandosi, sicuramente
esageratamente, l’appellativo di “canaglia”. Quei cani infatti che,
abbandonati, arrivano a formare un gruppo, si tuffano sulla preda sapendo che
da tanto dipende la loro sopravvivenza non disponendo di altro e avendo
digiunato per giorni.
Da
quanto emerso appare possibile constatare l’importanza di uno studio sulla
morale e di quanto a questa attinente così come prassi. La riconduzione di una
tale prassi arriva a recuperare quanto alcuni sono andati, via via, ad
appropriarsi fino a posizionarsi quali elementi derivanti da tali fatti spesso
enucleati da una stessa storicità e, comunque, additati da tutti coloro che si
sono trovati a respirare una tale cultura. Si tratta, dunque, di individuare i
termini portanti di esse azioni quali che siano, le quali, in caso diverso,
possono dipendere più o meno semplicemente da istinti o conformazioni ovvero da
una mentalità anche meccanicamente venuta a costituirsi con quanto di non
valido un operato non valutato può portare con sé.
Muoviamo
da un esempio: Nel caso in cui una persona si trovasse in pericolo, il “bruto”
preso in considerazione non si accingerebbe a salvarla dando la precedenza alla
propria vita o anche solo alle proprie comodità. Diverso il discorso che
riguarda colui che avverte la spinta che caratterizza il dovere e che si
proietta in quell’universalità. Per questa, prima ancora di ogni considerazione
di ordine teoretico, quale potrebbe risultare il sacrificio di sé pur di salvare
la propria famiglia o più specificamente i figli così che per la vita di questi,
nella quale reputi in parte almeno di continuare, sacrifichi la propria, un
tale soggetto supera esso esistente, limitato e “minimale” ovvero si presenta
al di là di questo come soggetto che si riconosce in essa universalità di
fronte alla quale, a cessare è essa particolarità dall’esistente rappresentata.
Proprio tanto arriva a prendere corpo rispetto allo stesso sistema per il quale
un antico nobile anteponeva la dignità a quel proprio sé da intendersi anche
non limitato al solo empirico corrispettivo di una esistenza.
La
morale, al di là, dunque, delle concretizzazioni storicamente assunte passa
anche o soprattutto attraverso il sacrificio di quanto potrebbe risultare
giovevole al singolo. Essa dipende dalla tensione ovverosia dallo scarto che
viene a crearsi tra i propri vantaggi ai quali risulta anteposto, se non ancora
l’universale, il sistema. Diversa la validità di un dono di dieci euro ad un
povero da parte di un ricco o di qualcuno per il quale una tale cifra non
risultasse ininfluente. A quello non deriverebbe quasi effetto alcuno
diversamente che all’altro il quale dovrebbe privarsi di qualcosa. Proprio
perché l’altro aliena una somma che non incide minimamente sulle sue esigenze
il suo gesto, benché da apprezzare, non può essere considerato a rigore
“morale”.
Possiamo,
infine, ritenere di avere trovato due distinti operati: quello rispondente
all’animale (biologico), ossia a un vivere in risposta ai propri stimoli o
comunque, nel caso così come contemplato da Kant, un granello da “restituire
nuovamente al pianeta la materia con la quale è stato formato” e l’altro quasi
opposto portato dalla morale, per il quale si manifesta quell’universalità che
convoglia l’uomo fino ad inserirsi nell’intero universo, non potendosi
quand’anche lo volesse, considerarsi inferiore.
Cerchiamo
ora di attualizzare: possiamo ritrovare ancora oggi le figure del bruto e del
nobile? Affidiamo una tale riflessione ai giovani che abbiano potuto osservare
fatti al riguardo sia relativamente a comportamenti di coetanei che di adulti.
Anche
questo processo può essere definito cultura, al di là dello stesso recupero
della realtà individuata oltre la trasfigurazione classica.
lezione del prof. Addona riportata da
chiara De Mizio, Ic
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