Aristotele, che Dante chiama “maestro
di coloro che sanno”, da Stagira, dove era nato, si trasferisce ad Atene a diciassette
anni dove divenne discepolo di Platone. Alla morte del maestro, fu assalito da
un dubbio, riportato nella famosa affermazione latina “amicus Plato, sed magis
amica veritas”. Il problema che lo assillava era: continuare a ritenere la
dottrina di Platone, che l’aveva fatto diventare il massimo scienziato del
tempo (e forse del mondo), o seguire quello che a lui sembrava più giusto. Alla
fine optò di distaccarsi dal maestro e di seguire, quindi, il suo pensiero.
La portata di una tale risoluzione
può essere ritenuta storica ed emblematica sotto l’aspetto teoretico e pratico.
Non si può accondiscendere a quello che ritiene un amico solo per far piacere a
costui e mantenere in piedi un rapporto anche magari molto appagante. Se l’amico
è colui che sostiene e al quale affidare il proprio sé magari più recondito,
pure non può essere sottaciuto l’errore che eventualmente commette. Certo non
si rivolgerà a lui in termini da massacrarlo o farlo dispiacere ma interverrà
perché possa migliorarsi. Ove non si esponesse resterebbero entrambi bloccati
in una dimensione non valida perché non sostenibile. Quanto si presenta attuale
una tale disposizione! Spesso, infatti notiamo associazioni tra persone che si
autoglorificano restando in quel loro stato che possiamo ritenere invalidante
ed offensivo del giusto solo sul quale può reggere una società
intersoggettivamente espressa. Quanto non si riconosce possibile ad un
cittadino non può essere tollerato in quella persona con la quale si
condividono i momenti più belli o anche tristi. Un soggetto non può risultare
che per quell’universalità nella quale potere essere riconosciuto senza scadere
in una esistenzialità che non possa in alcuno modo essere sostenuta. Da tanto
si trovano a derivare quelle contraddizioni rappresentate, altresì, dall’uso di
due pesi e due misure. Al di là dell’unità per la quale una identificazione a
dispiegarsi possono essere solo sdoppiamenti, annullanti, come tali, quella che
pure tende a presentarsi come la stessa persona, fatto questo che non può
risultare né ad una sua richiesta né a quelle di altri. Da tanto la validità,
dunque, teoretica e pratica di una ricerca filosofica che arriva a fare
emergere i termini per i quali essere.
Aristotele fu quasi presago di se
stesso. Ritenne, infatti, che quando un filosofo abbia prodotto rilevazioni e
tesi molto consistenti arriva quasi a bloccare i discepoli. Tanto dovrebbe fare
da monito a quei docenti che anziché rapportarsi con gli allievi e costruire
insieme senza apparire su un altro pianeta per una cultura profusa spesso si
esibiscono in quella che potremmo anche ritenere una danza ammaliante e però,
proprio in quanto tale, ergere un muro che poi risulterà difficilissimo da
valicare per procedere oltre su quella strada tracciata dall’indagine critica
che non può che accomunare.
Tra tante cose meravigliose che
Aristotele disse forse due possono apparire da segnalare:
La possibilità della comunicazione e
le individuazioni etiche.
Lo scopritore della logica formale
rende astratto e funzionale quello che forse era già insito nel principio di
Parmenide. L’identità non risulta un tutt’uno con l’essere ma con ciò che
arriva a essere individuato. Due persone possono ben essere in contrasto su un
argomento, ma stanno comunicando perché entrambe hanno capito di cosa si sta parlando.
Con un tale principio, nella famosa formulazione debole, forte e del terzo
escluso Aristotele perviene a ritagliare uno spazio a quella conoscenza
sottratta oramai alla retorica dei sofisti.
Un tale principio non si può
insegnare: rappresenta infatti la condizione sulla quale procedere.
Altra prerogativa che spetta
propriamente all’alunno è la scelta del maestro.
Articolo scritto da Francesco
D’Andrea, I C da una lezione del prof. Addona
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