Aristotele, che è convinto che il
movimento non possa nascere, al punto da risultare corrispettivo ad un
principio che assume così come primo motore immobile, reputa, in ogni caso, che
o c’è sempre o non può prodursi […] “lo stesso dicasi per il tempo (giacché il
prima e il poi non potrebbero esistere se non esistesse il tempo).” Aristotele,
oscillando tra il ritenerlo un qualcosa di intrinseco e incentrato su un
esterno, percepisce la difficoltà di una individuazione di quello. Egli
recepisce quella stessa che rappresenterà la concezione moderna di quello,
fatto questo che però perviene ad abbandonare per quell’essere sul quale
ritiene incentrata la conoscenza. Cos’è dunque esso tempo? Se c’è un tempo in
esso si distinguono in un prima e un dopo gli elementi che, infatti, in esso
vanno a prendere corpo. Potrebbe, altresì, essere portato dalle cose allora che
arrivassero a disporsi per se stesse al punto da esprimere quello. Quello
potrebbe preesistere, dunque, o nascere con quelle. Considerato un qualcosa,
fatto questo che, per Aristotele, dovrebbe valere ad indicare una sua realtà,
così come accade al movimento, deve esserci sempre. Nel momento stesso,
infatti, in cui ci chiediamo cosa ci fosse prima di questo, staremmo già
parlando di tempo che però arriva ad interrompersi per fare spazio ad un niente
ovvero ad un suo non essere in una siffatta configurazione. Esso tempo giunge
così a essere ritenuto continuo come continuo è stato concepito il movimento. Le
cose che si muovono sono misurate dal tempo o meglio il movimento rappresenta
il tempo stesso. Il tempo, non risultando recuperato dall’esistente, ovvero non
essendo recepito nel suo dispiegarsi soggettivo – Aristotele, infatti, non
arriva a caricare il soggetto né di questa né di altre realtà – non può che
risultare affidato alle cose o essere concepito esso stesso come quel qualcosa
nel quale le cose si muovono. Aristotele passa in rassegna le varie possibilità
ancorché, in ultimo, lo affidi a quella realtà che già ha per altri versi
assunto. Egli non perviene a reputare la continuità all’infinito di un tale
movimento relegandolo a quello locale rappresentato a livello spaziale da
quello circolare. Un movimento rettilineo o comunque non convergente su se
stesso porterebbe all’infinito risolto da quel motore immobile che non ha
nemmeno bisogno di produrre una causa efficiente al punto che muove come fine.
In esso così come principio si risolve il tutto, ancorché sia costretto ad
ammettere intelligenze per i cieli reputati non decomporsi come accade al
materiale che non partecipa di quelli e della loro realtà. Un basso e un alto
evitati con quel moto perfetto ovvero a dire circolare pure appaiono tornare
come superiore ed inalterabile ed inferiore decomponentesi. Una causa motrice,
pure affidata a potenza e atto, non appare risolvere non potendosi tra l’altro
scindere essa potenza da quell’atto pure ritenuto precedere e sostenere il tutto.
Metafisica,
op. cit. XII, 6, 1071b, in op. cit., pp. 351-352
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