domenica 4 giugno 2017

LO SCETTICISMO: SESTO EMPIRICO

Anche la matematica, ritenuta dai Greci una scienza da potere essere insegnata, arrivò, almeno con Sesto Empirico, ad essere messa in dubbio. La scienza, fondata come è sull’induzione e sulla deduzione, arrivava a fare leva sul concetto di causa che però quello reputava non potersi applicare.

 Proviamo ad addentrarsi in un tale problema: Appena affermiamo qualcosa, leghiamo qualcosa a qualcos’altro. Si tratta di considerare l’enunciato. Bisogna rilevare il legame presente nell’enunciato. Bisogna “dimostrare” che Socrate è un animale razionale. Tenuto conto che si è pervenuti a tanto considerando Socrate uomo, l’indagine non può non interessare la premessa e quindi l’inserimento del termine in questa. Uno stesso problema appare investire sia la costruzione della premessa che comunque non può contemplare tutti i casi così come pure espresso dal funtore universale e sia la sussunzione. Quali infatti gli elementi per ritenere che Socrate è uomo? Quelli osservati e accomunati sotto un concetto da cui una specie? Si tratta comunque di rilevazioni e di accostamenti ancorché una tale visione sia frutto piuttosto dell’era moderna anche se una tale problematica non era sfuggita alla stessa antichità. A risultare applicata a un rapporto, in ogni caso ritenuto, è altresì una causa la quale non riesce a trovare una via per risultare legittimata.

Costruire dunque una induzione e legare, quindi, termini implica una operazione che chiede di essere giustificata. Il legame, in ogni caso, non è intrinseco. Già rispondere alla domanda: “cos’è un ragazzo?” implica un mettere insieme caratteristiche con le quali non si perviene ad una sostanza fatto questo ampiamente constatato da Aristotele.

Cogliere una causa significherebbe rilevarla in atto, fatto questo che non appare possibile per il fatto stesso che un effetto è ritenuto conseguire e recepito dunque fino però solo ad essere accostato. Un tal discorso porterà avanti emblematicamente Hume. Se in atto è essa causa, proprio per questo non può nello stesso tempo risultare l’effetto; ove tanto si desse ad emergere sarebbe esso insieme e colto unitamente a tutto quanto si dispiega neutralizzando esso tempo con quanto ritenuto da questo dipendere così come portato nella sua concretezza. Quando, altresì, a dispiegarsi è l’effetto non c’è più la causa. I due elementi restano esterni. Come si possono collegare, dunque, causa ed effetto? Non risulta possibile non potendosi dispiegare così come emerso. Eppure essa causa appare continuamente usata anche in scienza. Tanto in primo luogo sembra avere aperto la porta a quello scetticismo.

Applichiamo ora un discorso simile agli elementi ritenuti fare da principio e ad una deità. Se tutto quello che c’è deriva da acqua, aria, terra e fuoco, e se c’è un dio o quelli derivano da questo o il contrario. Del principio non può darsi dimostrazione alcuna, fatto questo che Aristotele aveva fatto emergere, non essendoci altro sul quale potere fare leva per la derivazione. Ad una dicotomia si perviene altresì non appena si vogliano ammettere più principi i quali, in quanto tali, si escludono a vicenda, non potendo appunto uno rientrare nell’altro.

Allora che a essere ammessi sono elementi diversi, più specificamente, incompatibili per nature assunte, quali un umano ed un divino a necessitare sono due piani così che i termini non pervengano a contraddizione. Se ci fosse un dio e vivesse nel mondo constatato, dovrebbe essere rilevato con gli stessi strumenti rappresentati dai sensi. Anche quello, così quale corpo, dovrebbe avere sensazioni e provare, quindi, piaceri e dolori. Se risultasse interessata da piaceri e dolori non si differenzierebbe dagli altri corpi animati e quindi non sarebbe più un dio. Se coraggioso, come da presupporre, dovrebbe avvertire anche la paura. Di un principio, dunque, nulla può dirsi potendo valere sia una considerazione che il suo opposto come Kant farà emergere a proposito della dialettica trascendentale. Se non alcunché, dunque, può essere sicuro, pure muovendo dalle condizioni del soggetto appare possibile ritenere per queste quel qualcosa con una validità da tanto derivante e che arriva ad essere supportata empiricamente da un esterno che è visto avvalorare o negare quanto scientificamente prodotto.

Articolo stilato da Francesco D’Andrea, I C da una lezione del prof. Addona

IL VARIARE DELLA CONCEZIONE DI CORAGGIO

il termine coraggio sta ad indicare al giorno d'oggi piuttosto una mancanza di paura e, dunque, quasi una non coscienza del pericolo che incombe su chi si accinge a compiere un’azione nella quale potere perdere anche la vita. Coloro che non hanno percezione né idea alcuna del pericolo che stanno correndo, quali ad esempio bambini che infilino le dita nella presa elettrica, non possono ritenersi coraggiosi ma semplicemente incoscienti. Quelli che venissero uccisi da una bomba, all'improvviso, in un posto X senza esserne consapevoli, devono essere definiti vittime. In costoro, infatti, non è presente quella consapevolezza di operare o di trovarsi in un luogo nel quale tanto possa capitare e tuttavia affrontato per un dovere universale quando non verso una società ed uno Stato. Appare evidente che perché una morale si dispieghi necessiti quello scarto tra quanto possibile ottenere come vantaggio e il rifiuto di esso per la generalità verso la quale si tende. Nel caso di un incendio vasto e devastante se qualcuno si tuffasse a salvare qualcuno in cambio di una cifra magari molta alta e non per quell’umanità per la quale sia pronto a mettere in pericolo se stesso per salvare in primo luogo anziani o bambini non potrebbe essere considerato eroe. Il vero coraggio non può che risultare sganciato da interessi materiali, dovendo rappresentare una virtù da cui la stessa ammirazione da parte di chi si trova a valutare un tale gesto. Si tratta, dunque, sia della conoscenza del pericolo che incorre e dei rischi che questo comporta fino a superarlo per posizionarsi su quella universalità dalla quale il soggetto. Diversa dunque la valutazione interessante soldati in battaglia consapevoli di potere morire e di altri ancora che varcassero le linee nemiche per produrre un’azione a vantaggio del proprio esercito e dello stato di cui si sentono cittadini. In quest’ultimo caso la fine non è silo calcolata ma si procede incontro a quella che può essere, nell’altro, la cessazione volontaria del proprio esistere. In un mondo nel quale a regnare è per lo più un’assenza di valori si tende a “valorizzare” ogni elemento utile per disporsi almeno per un momento fuori da quell’individualismo che alla fine solo abbrutisce.

Utilizzando, dunque, il termine “eroe” in un modo non consono, dando una concezione deformata al sostantivo, si perde la concezione storica di questa parola, giungendo ad accomunare, fatto questo che significa falsificare la sua significazione. In termini diversi: Quando la parola eroe arriva ad accomunare Achille, Ettore, Muzio Scevola a tanti altri a coloro ai quali, incidentalmente, per citare un caso estremo, sia caduta magari una tegola in testa per il forte vento significa indirizzarsi ad un disorientamento dal quale a derivarne non può essere sviluppo critico alcuno dal quale una società non può, in ultimo, che dipendere.

Una lezione del prof. Addona riportata da Chiara De Mizio, I C.