lunedì 17 dicembre 2018

LA CRITICA

Critica è quell'attività consistente nell'analisi e nella valutazione di un contesto approntando riferimenti e rivisitando relazioni.

Non si tratta di quella, dunque, che comunemente è ritenuta una critica come giudizio negativo quando non pettegolezzo classico. Si tratta, nel caso scientifico ed umano di far emergere quel qualcosa che pure è stato posto in essere così che un discorso giusto possa pervenire a rappresentazione senza che a risultare nascosto sia quanto potrebbe essere richiesto di valere diversamente. Ad essere commerciato, infatti, in tal caso, sarebbe un qualcosa al posto di altro con le falsificazioni e le ingiustizie appunto che una tale operazione si porta dietro. Opposta, una tale critica, rispettosa per quanto possibile comunque della persona, che è chiamata in causa come parte di essa società che rischia di essere manomessa nei termini portanti, allora che a darsi siano occultamenti, da un diffamare azione vile volta a far ricadere su qualcuno quanto invece, in nessun modo, a questo attiene. Tacere così e parlare si trovano a rispondere alla medesima impostazione, rispondendo in un caso alla giustizia e in un altro al suo opposto deleterio. 

Mariagiulia Pino I C da una lezione del prof. Addona

 

giovedì 6 dicembre 2018

MARX È ANCORA TRA NOI?

Analizzando la figura dell’operaio, Marx afferma che questi, durante il processo produttivo, si estranea dalla merce che produce, in quanto non la genera per se stesso né sa che pezzo è né chi lo ha ideato né a quali altri pezzi sarà assemblato. Potremmo paragonare questo processo di alienazione che interessa l’operaio a quello posto in essere da un docente, che nel momento in cui spiega senza mostrare come il fatto emerge, produce anch’egli un lavoro che estrania e che si riversa sull’alunno, benché quello possa sembrare soddisfatto di avere propinato qualcosa che giunge a ritenere come cultura e al punto magari da farlo sentire anche piuttosto importante. Un discorso simile appare interessare quel discente che si compiacesse di vedersi riconosciuto con un voto il lavoro profuso ad acquisire una siffatta mole di elementi. Non dunque una cultura pagante per se stessa ma conoscenze alle quali arriva ad essere assegnato un riconoscimento.

La seconda fase di alienazione che Marx analizza è quella che interessa l’operaio stesso ovvero il suo essere. Portando avanti un lavoro estenuante oltre che estraniante, l’operaio arriva a negare se stesso che non trova infatti corrispettivo alcuno per rilevarsi al di là di tanto. Se l’unico posto per affermare se stessi è per gli operai fuori dall’ambito lavorativo pure in una tale situazione non trovano alcunché per cui realizzarsi. Sollo allora, dunque, che risulti possibile riconoscersi come esseri e non quali macchine produttive ci si può incontrare con gli altri per un rapporto intersoggettivo. Ove tanto non accada come appare possibile altresì riscontrare in alcuni impiegati, i quali pur non svolgendo un lavoro interamente alienante pure non riescono a trovare se stessi per elementi che possano supportarli quali soggetti riconoscibili. Proprio costoro avvertono fortemente il bisogno di evadere, di viaggiare, di esprimersi in superficialità ovvero di recuperare apparenze nelle quali immergersi quasi rappresentassero la realtà nella quale ritenere di vivere. Essi sembrano autoconsiderarsi con il porre in essere quanto anche da altri portato avanti. Tanto appare rappresentare un loro meccanicismo al di là della macchia alla quale pure non sono legati. Tornando all’esempio dei professori appare evidente che se costoro non fossero soddisfatti del lavoro svolto giungerebbero, da un lato, a negare se stessi e, dall’altro, fatto ancora più grave se tanto pure possa risultare, a risucchiare gli alunni in un tale prodotto che, esterno, non potrebbe che arrecare, almeno in larga parte, fastidio.

Un altro grande problema della società è rappresentato dall’individualismo, contrario a quell’umanità nella quale a rientrare sono gli altri. Umano, infatti, è colui che percepisce l’altro uomo e spesso ogni altro essere come se stesso, immedesimandosi fino a compiangerlo in caso venga a trovarsi in una situazione spiacevole.

Un’altra contrapposizione che si viene a creare consequenzialmente alla mercificazione dell’operaio è quella rispetto ad altri uomini. Allora che l’unico obiettivo dell’operaio sia quello di lavorare per guadagnare il sostentamento necessario alla propria esistenza egli è visto restare totalmente estraneo al rapporto con gli altri. Egli non trova né tempo né elementi per potersi relazionare al di là dunque di quello stretto ambito esistenziale nonché sulla famiglia incentrato, non dandosi possibilità di allargamento alcuno di quelle relazioni che arrivano ad interessare un essere tra gli altri che consapevolmente e liberamente si esprime. La merce, ove a non darsi sia una coscienza di presentarsi per essere, diventa il metro con il quale ci si valuta e così tanto padrona della vita dell’uomo al punto che, se qualcuno vede che qualcun altro ha qualcosa in più di lui, rincorre questo dal quale ritiene dipendere una sua consistenza perdendo proprio il suo essere più peculiare pura.

LEZIONE DEL PROF ADDONA RIPORTATA DA CHIARA DE MIZIO, IIIC


IL DIVERSO

Il diverso è ritenuto pericoloso, poiché comportandosi in modo a noi non noto, risulta propriamente un’incognita da cui un probabile pericolo. Il non conoscere, quindi, porta a ritenere quello stesso un nemico. Da quanto non consueto ci si può aspettare che possa derivare, infatti, qualsiasi cosa.

Prendiamo in esame l’arrivo di un naufrago su un’isola. Costui quando non ritenuto un predone appariva comunque necessitare di cibarsi e tanto non poteva avvenire che a spese del territorio abitato. Il discorso si faceva più consistente se ad arrivare fosse stato un gruppo nonché in possesso di alcune armi scampate alle peripezie. Il pericolo veniva a essere rappresentato dalle forze in campo con quanto potessero predare mettendo a rischio la vita stessa di alquanti abitanti. Ecco allora l’importanza della presentazione e della richiesta di essere accolti non come nemici ma uomini da ospitare. Ad intervenire, a questo punto, era la ritenzione di tali elementi con le traduzioni del caso. Qualcuno poteva spacciarsi, infatti, come re di qualche territorio lontano spinto, in quei luoghi, dai flutti. Si trattava di scoprire i millantatori e valutare i vantaggi derivanti da una tale ospitalità. Tanto ancora a prescindere da un discorso da una umanità portato.

Affrontiamo ora il rapporto tra i primi cristiani e gli altri cittadini dell’antica Roma. Quelli proprio riunendosi nelle catacombe per organizzarsi destavano sospetti di muoversi diversamente. I Romani pagani si chiedevano ovviamente se stessero per tramare qualcosa ai loro danni, ritenendo magarsi che non vi fosse motivo di nascondersi, essendo liberi di praticare la loro religione così come accadeva a tutte le altre tollerate a Roma. Sarebbero stati considerati pericolosi per lo stato se non avessero pagato i tributi o se avessero arrecato danno all’Impero. I Cristiani credevano nell’uguaglianza essendo tutti figli di Dio ed aspettavano l’arrivo di quel regno anche se Gesù aveva precisato che il suo fosse il regno dei cieli. Proprio una tale Fede arrivava a dividere i valori di un mondo dall’altro.

I Cristiani allo spirituale associavano il materiale. Non risultava, infatti, concepibile che gli uomini potessero dividersi in padroni e schiavi. Proprio l’opposizione a esso stato, sulla schiavitù incentrato, destava preoccupazione agli ottimati e a tutti coloro che avevano da perdere da una scomparsa di quella.

Allora che si arrivava in uno Stato o in una Regione per convertire le persone, chi tanto predicava veniva dichiarato nemico da coloro che avevano da perdere da tali concezioni. Chi entra in uno Stato senza documenti o permessi dovrebbe essere considerato similmente un nemico? Dipende dai riferimenti. Se a essere considerata è la ricchezza prodotta dai nuovi venuti questi sono accolti favorevolmente. Diversamente sono visti da coloro ai quali si vedessero sottratto un lavoro o occupate da quelli posizioni quali che possano risultare. Dato uno stato chiuso e con le sue leggi, queste dovrebbero essere applicate fermando gli arrivi e tutelandosi, quindi, da questi. Potrebbe accadere l’esatto contrario allora che queste stesse prevedessero un ingresso magari sottoposto a talune disposizioni. Uno Stato potrebbe andare a prelevare persone senza aspettare che rischiassero la vita in mare per giungere sul territorio di quello. Si tratta di risalire a motivazioni e condizioni tramite una indagine critica su una logica incentrata fino a scoprire se una tale logica venga ad essere aggirata o semplicemente non considerata.

La filosofia già dall’età classica, quindi da duemila e cinquecento anni almeno, è riuscita a fare emergere la figura dell’uomo, che per essa si connotasse, quale apolide. Per una tale concezione risultava superato il confine netto rappresentato dalla compagine statale solo nella quale si poteva sentirsi garantiti. Da esso stato infatti dipendevano la vita e la stessa libertà. Fuori da esso non si poteva che essere alla mercé di chiunque disponesse di una forza per imporsi fino a rendere schiavi coloro che non potessero difendersi. Un posizionamento diverso non può che risultare per una ragione nella quale ritrovarsi con quelli che cessano di dispiegarsi per avvertire sensibili e in risposta ad istinti per esplicarsi per essa universalità che non appare necessitare di confini e relative tutele statali. Al di là di tanto a esprimersi sarebbe un esistente che non si affiderebbe ad individuazione alcuna. Ciò non lo esimerebbe tuttavia dalle relazioni che andassero a prodursi così come di fatto è visto accadere. Proprio da tanto appare mergere la differenza di fondo tra una libertà filosoficamente ovvero scientificamente riconosciuta ed una che non si connettesse a riferimento alcuno, fatto questo che non porterebbe ad identificare quella ma a recepirla come ogni altro elemento ancorché nel suo non sentirsi vincolata ad alcuno di questi.

Oggi al posto dei vari gruppi rivali, se non avversari o solo estranei, a presentarsi è l’uomo che tra l’altro è tutelato da riconoscimenti e convenzioni internazionali almeno fino a quando queste riescono a far sentire la loro voce. Si tratta, dunque, di superare le antiche divisioni e di applicare la considerazione di soggetto facendola combaciare con quella di cittadino. Un tale passaggio non può che risultare ancora politico e, prima ancora, filosofico. Si tratta di far combaciare mentalità scientifica, su una umanità incentrata, e potere. Ciascuno deve chiedersi quanto è disposto a lasciare all’altro di fronte e quindi a colui che arriva. Su cosa fondare il proprio essere allora che questo sia almeno intravisto tra quanto richiesto dai vari impulsi.

Fino a che punto, in ultimo, si è disposti a far partecipare gli altri del proprio stato e delle proprie sostanze allora che ciò tenga il posto di quel soggetto che si constata parte dell’altro in una umanità su una sensibilità incentrata e da una ragione riconosciuta?

venerdì 30 novembre 2018

RAPPORTI E PENSIERO

Il pensiero non può che rivelarsi nello stesso rapporto nel momento stesso che arriva a riconoscersi come tale. Allora che qualcuno ripetesse quello che dice un altro, solo perché dipende da quest’ultimo, non arriva a rappresentarsi per un pensiero autonomo.

Proprio allora che un funzionario si limita a ripetere ciò che ha detto un suo superiore per venire incontro all’interesse del sistema generale nel quale è inserito possiamo ritenerlo un venduto alla quella causa, la quale, altresì, per tanti versi fornisce materiale alla propria? Possiamo considerarlo uno spirito libero? Ovvero reputare qualcuno con il quale potere costruttivamente dialogare nel senso che quanto emerge può essere reputato intersoggettivo e, quindi, portante? Sicuramente questo non è un soggetto che può rispondere ad una verità che può costruire insieme poiché è già chiuso nella fortezza rappresentata dagli interessi di parte. Egli non risponderà dunque su basi logiche né su presupposti che possano reggere un discorso scientifico ed umano.

Ne deriva che chi ha un pensiero dipendente, non fosse che addirittura da un capo di Stato, temporale o spirituale che sia e, come si è soliti sentire pronunciare, faccia di necessità virtù, ripetendo o pubblicizzando addirittura senza preoccuparsi di comprendere se le affermazioni risultino effettive ossia giuste, con i imiti dei quali scienza e filosofia sono consapevoli, non appare avere da fornire quegli elementi sui quali costruire insieme quanto potrà sembrare più vero, fatto questo che arriva ad implicare un pensiero che svolge pienamente il suo ruolo fino a condurre l’uomo a soggetto. Volendo essere più espliciti: che senso avrebbe parlare a lungo con qualcuno e convenire su taluni elementi e venire a conoscenza che quella persona si è mossa in termini interamente diversi da quanto convenuto? L’intero discorso portato avanti risulta annullato. Si è perso solo tempo ove a derivarne non siano danni maggiori.

Colui che non mantiene quanto dichiarato almeno fino a che ad intervenire non fossero elementi comunicati e sui quali intervenga una critica da portare avanti con l’alttro almeno o con tutti coloro con i quali è in rapporto, difficilmente se non impossibile può risultare una relazione e fatto che risulta lo stesso una società con lo stesso utile che questa è vista portare con sé. Se il primo vende ciò che pensa in cambio della sua posizione e dei vantaggi a questa connessi, il secondo si volge ad usare quanto emerso dal dialogo e per il resto agguantare anche lui quanto una società incentrata su termini diversi possa offrire.

Colui, invece, che si presenta con un pensiero e un essere liberi si può permettere non solo di pensare ogni volta, ma di recepire quello che viene proposto e seguirlo se tanto sembrerà più vero. Povero Socrate tanto decantato ma non sempre seguito da coloro stessi che dicono di averlo studiato ma forse si tratta solo di averlo meccanicamente imparato e pronto da sciorinare ad ogni occasione che possa risultare utile. Non applicandolo ad emergere è lo sdoppiamento tra una cultura nozionistica e tecnica, pure propagandata, e quella che invece deve rappresentare il percorso vivo sul quale ogni società non può che reggere e ogni stato risultare, in ultimo, costituito.

 Lezione del prof. Addona riportata da Danilo Stanco IIIC

 

giovedì 15 novembre 2018

Il seduttore

Kierkegaard si occupa anzitutto del lato estetico, basato sui sensi, dal quale deriva la seduzione e per la quale prende a modello il famoso don Giovanni che tuttavia fatica a considerare come un vero e proprio seduttore perché questi non rientra in nessuna determinazione etica, in nessuna categoria morale ma ne resta fuori, non ponendosi un tale problema. Una morale e quanto a questa corrispettivo compaiono solo quando da parte dell’individuo vi è una scelta meditata. Questo filosofo ritiene, infatti, che per essere un seduttore occorra una responsabilità e una consapevolezza costanti poiché in mancanza di questi elementi e quindi in assenza di una legge non può esserci reato alcuno né emergere un giudizio di condanna a meno che non vogliamo intendere quale una colpa non avere adottato quella scelta. Soltanto colui che sa di porre in essere quei termini per ottenere un obiettivo può essere considerato colpevole dato che lo ha studiato, lo ha calcolato, lo ha, appunto, premeditato. La seduzione sensuale si presenta, nel caso di quello, legittima, perché accade senza che ad intervenire sia una riflessione. Quella, tuttavia, non appare potere essere tollerata perché annienta, in uno, sia la personalità di chi è sedotto e sia quella del seduttore. A don Giovanni questa coscienza manca, perciò non può essere considerato un seduttore. Egli non è un ingannatore che calcola l’effetto dei suoi intrighi ma desidera e questo desiderio ha un effetto seduttore; è per questo che egli seduce. Gode il soddisfacimento del desiderio ma non appena l’ha goduto, cerca un altro oggetto, e così all’infinito: da ciò scaturisce un limite che va a determinare una crisi d’identità nell’individuo similmente a colui che non applica la ragione ma punta soltanto alle particolarità. Costui, praticamente, non arriva a percepire un proprio essere; non sa chi è, per dirla in termini diversi.  Per essere un vero seduttore gli manca il tempo: non ha una continuità, né arriva a dispiegare un proprio essere. Si realizza, infatti, in una immediatezza di eventi. Un tempo, arriva, ammesso che sia posto in essere in una certa continuità, a essere frantumato. In altre parole, non si realizza come sé perché non mette in rapporto ciò che fa ad un riferimento. A venire meno è propriamente il soggetto delle predicazioni. A lui manca una identità e una personalità al di là di quella che perviene a essere recepita da una sommatoria di realizzazioni delle quali si sente investito. Egli, dunque, vive la seduzione come un presente che recepisce portato da una sensualità che puntualmente trasmette e grazie a ciò ottiene l’effetto e però, come già emerso, senza calcolarlo.

Lezione del prof. Addona riportata da Giusy Perugini, III C.

lunedì 8 ottobre 2018

Pensare solo per il proprio riferimento e pensare per altro

Se non avessimo rotto o quantomeno aggirato i nostri riferimenti, recuperandone altri da altri punti di vista, cosa sarebbe successo? Avremmo coinvolto altre cose in funzione dei nostri pensieri, capacità o limiti? Per esempio, per gli esseri, soprattutto, umani vi è differenza tra un su e un giù diversamente da quanto è visto interessare un aereo, al quale possiamo ritenere risulta indifferente una sua posizione rispetto all’aria che fende. Da una tale considerazione emerge la possibilità da parte di esso pensiero di muovere da riferimenti diversi ricavandone magari ulteriori e diverse inferenze. Ove non procedessimo su una tale strada arriveremmo ad attribuire ad un qualcosa quanto invece valido per colui che lo ha pensato e in quei termini. Mi viene in mente, al riguardo, una osservazione che produssi da ragazzo a proposito della distruzione di un eco sistema. Il fatto che un sistema faccia posto ad un altro non significa che scompaia in quanto tale ma che a venire meno possano essere elementi che arrivano ad interessare l’uomo e la sua vita. Pensando facendo leva su un ecosistema in generale riusciamo a configurarci anche la fine di esso esistente pensante e però a continuare appare possibile ritenere gli altri esistenti che pervangano ad occupare gli spazi lasciati liberi producendo per le relazioni che vengono a stabilirsi. Ricordo ancora il corso di psicologia all’università allora che ad essere affrontato era il quoziente intellettivo, l’oramai famoso I Q. Un cane, arrivava a essere reputato più intelligente di una gallina per il fatto che questa riusciva a spostarsi solo di circa un metro da un cibo posto al di là della rete mentre l’altro animale dopo avere tentato di recuperare con le zampe esso cibo o spingendo la rete con il muso si allontanava fino a percorrere esso limite dalla rete rappresentato, aggirando questa appunto e prendere il cibo. A essere considerato era tuttavia anche il fatto che un cane era più abituato a percorrere spazi maggiormente ampi, fatto questo che avrebbe dovuto essere sottratto a quella che pure era ritenuta una intelligenza così come misurata. Pensare, tra l’altro, significa non restare ancorati a riferimenti ma muovere da quanto possa risultare per altri e in altre relazioni senza perdere le possibilità di procedere su quanto comunque arriva a fare da base ad un sistema conoscitivo che però non si isola interamente da un non noto al quale una attenzione, finché possibile va ancora rivolta, risultando l’ambito posto in essere non scisso dall’altro ancorché non identificato. A relazionarsi con un non noto è essa conoscenza scientifica in siffatti termini configurata.

Una lezione del prof. Addona riportata da Lina Donisi e Francesco Boscaino, I C.

Modo di studiare

Come si studia? Il modo di studiare più funzionale sembra quello di pensare, mentre si legge un testo, a ciò che verrà espresso in seguito. Se il nostro pensiero corrisponde a quello che risulta dal libro significa che siamo a un livello di logica simile a quella posta in essere dal testo. Se giovani soprattutto possiamo cominciare a reputare di trovarci ad una stato avanzato nelle individuazioni. Ove a darsi non sia quanto da noi prospettato, ovvero nel caso contrario, confrontiamo il nostro errore con gli elementi presentati dal testo così che eliminando quelli appare possibile migliorare essa conoscenza. In entrambi i casi a essere conseguita è una vittoria. Che risultino verificati essi approcci, o che dir si voglia esse competenze acquisite, o che si arricchiscano per i passaggi incontrati a concretizzarsi è quel procedere in una cultura che è divenuta personale perché criticamente posta in essere. A essere percorsi sono stati, infatti, essi processi che risultano all’opposto di ogni semplice assimilazione. Essi risultano vivi e quindi effettivi perché pensati in proprio e in interazione con gli altri.

Lezione del prof. Addona riportata da Elena Russo, I C

martedì 25 settembre 2018

FURBIZIA

Possiamo considerare furbizia quell’intelligenza limitata e comunque applicata per ottenere un fine personale scavalcando quella di altri, ritenuti potere essere usati.

La differenza tra un furbo e un intelligente non è, tuttavia, data da una quantità di essa facoltà a comprendere, ma il modo in cui viene applicata o, più specificamente, l’ancoraggio ovvero ancora e propriamente il fine per il quale risulta posta in essere. L’intelligente come razionalità che si dispiega per l’apertura peculiare a un siffatto pensiero risulta consapevole che di fronte a sé ci sia una persona con la quale interagire e non un oggetto da raggirare. Il suo obiettivo non è costituito, dunque, dal raggiungimento di scopi particolari perché essa ragione di configura in quella universalità nella quale rientra la persona che sta di fronte. Da considerare altresì è ancora il fatto che non presentandosi essa facoltà vincolata alle ristrettezze nelle quali è visto muoversi esso esistente arriva a percorrere spazi dai quali emergere visioni più ampie così che a beneficiarne sono le stesse intuizioni generali. È il caso di ricordare quanto constatato da Platone a proposito di quei giovani buoni e timidi rispetto a quegli altri che sembravano avere il mondo tra le mani. Quando però quelli, avendo conosciuto attraverso essi altri le cattiverie che il loro animo non concepiva, mettendo insieme i termini pervenivano a ribaltare la situazione, risultando gli altri limitati e letti così come un libro, emergendo così come ridicoli nelle loro meschine macchinazioni che non potevano realizzarsi in alcun modo.

Una lezione del prof. Addona riportata da Francesco Boscaino, I C.

martedì 29 maggio 2018


BLOG- NOBILTÀ E BRUTALITÀ...
 IL BRUTO ESISTE ANCORA OGGI?
COME ATTUALIZZARE LA MORALE DI KANT

Analizzando il seguente passo di Kant riguardante la legge morale, all'interno della Critica della ragione pura pratica: “La prima veduta, [il cielo stellato] di un insieme innumerabile di mondi, annienta, per così dire, la mia importanza di “creatura animale”, che dovrà restituire la materia di cui è fatta al pianeta (un semplice punto nell'universo), dopo essere stata dotata per breve tempo (non si sa come) di forza vitale. La seconda, [la legge morale] al contrario, innalza infinitamente il mio valore, come valore di una “intelligenza”, in grazia della mia personalità, in cui la legge morale mi rivela una vita indipendente dall'animalità, e perfino dall'intero mondo sensibile: almeno per quel che si può desumere dalla destinazione finale della mia esistenza in virtù di questa legge; la quale destinazione non è limitata alle condizioni e ai confini di questa vita, ma va all'infinito.”, possiamo dare una definizione di “nobile”, ricavabile per converso da quella di “bruto”, “plebeo”, ossia di un uomo rozzo dei modi, che non ha il senso dell'altro, magari individualista, che tende ad essere violento ed aggressivo e, relazionandosi con una persona, non ne percepisce quell'Io. Il “nobile”, dunque, è il soggetto che, per usare ancora le parole di Kant, si eleva INFINITAMENTE, che si distingue dagli animali per la ragione (che il filosofo definirà in modo forse ancora non interamente adeguato come intelligenza) e riesce a sopprimere o a contenere i propri istinti, sacrificando quindi quelle che arrivano a concretizzarsi come richieste che potrebbero portare ad un proprio e particolare utile. il bruto invece non riesce ad elevarsi ad un piano più generale nel quale l’altro possa essere ritrovato ed agisce, invece, mosso unicamente da primitive passioni ed istinti, i quali possono spingere anche alla violenza più marcata. Non diverso il discorso si presenta allora che a intervenire sia una paura. Questa infatti si configura sulla stessa linea benché all’opposto della volontà che insegue interesse in positivo. Allora che quella invade l’esistente costui tende a conservarsi sacrificando ogni cosa che arriva a prospettarsi di fronte. L’azione eroica invece, che possiamo ritenere quale corrispettiva di una “nobiltà”, sacrifica appunto quanto l’altra pone in essere a tutela e conservazione dell’esistente. Il non comportarsi, quindi, esclusivamente da uomo-animale proietta il soggetto verso quel comportamento che può essere detto sia eroico che nobile. Chi si sente investito da una tale spinta universale, per usare ancora la scoperta kantiana non si sforza di superare quella paura per la quale si abbasserebbe da soggetto universale ad animale particolare. Sia in pace dunque che allora che purtroppo si trovavano in guerra coloro che avvertono quell’imperativo, che rappresenta la base della morale kantiana, non arrivano ad anteporre la paura a ciò che ritengono da doversi esprimere in quanto valido universalmente. 
Con questo passo, dunque, il grande Kant arriva ad individuare scientificamente il percorso possibile ad un soggetto che per anni è stato vagamente ritenuto, per comportamenti similari, nobile. Una critica tanto importante quindi da far emergere in termini dimostrati in un sistema quanto da molti ritenuto e seguito ancorché non rispondente a siffatti elementi ma a considerazioni anche storiche o di discendenza per le quali erano ritenuti “diversi” da quelli che si comportavano solo in funzione della propria esistenza, meritandosi, sicuramente esageratamente, l’appellativo di “canaglia”. Quei cani infatti che, abbandonati, arrivano a formare un gruppo, si tuffano sulla preda sapendo che da tanto dipende la loro sopravvivenza non disponendo di altro e avendo digiunato per giorni.

Possiamo da tanto constatare l’importanza di uno studio sulla morale e di una esplicazione di questa che arriva a sottrarre quanto da alcuni appropriato. Nel caso in cui, ad esempio, una persona si trovasse in pericolo, il bruto non si accinge a salvarla dando la precedenza alla propria sicurezza. Diverso il discorso per il quale interviene colui che avverte la spinta che caratterizza il dovere e che si proietta in quell’universalità nella quale supera esso esistente limitato e “minimale” rispetto alla grandezza riconosciuta dell’universo fisico. La morale infatti, abbiamo notato, passa anche o soprattutto attraverso il sacrificio di quanto potrebbe risultare tranquillamente giovevole. Valga un esempio molto limitato di un ricco che donasse dieci euro a un povero. Proprio perché non si priva di una parte considerevole di sé, il suo gesto,  benché da apprezzare, non può essere considerato a rigore “morale”. Ritroviamo infine due distinti operati: quello rispondente all’animale (biologico), ossia vivere rispondendo ai propri stimoli per “restituire nuovamente al pianeta la materia con la quale è stato formato”; quasi opposto quello morale, per il quale si manifesta quell’universalità che porta l’uomo ad inserirsi nell’intero universo, non potendosi quand’anche lo volesse, considerarsi inferiore. Cerchiamo ora di attualizzare...possiamo ritrovare ancora oggi le figure del bruto e del nobile? Affidiamo una tale riflessione a tutti i giovani che hanno potuto recepire osservazioni a riguardo sia relativamente a comportamenti di coetanei che di adulti.
Anche questo processo può essere definito cultura, oltre al recupero della trasfigurazione classica della realtà.


CHIARA DE MIZIO, IIC

giovedì 3 maggio 2018

LA DEFINIZIONE DI CULTURA

Molte potrebbero essere le definizioni di cultura. Sicuramente da ritenere per eccellenza da parte soprattutto di uno studente è quella che riguarda ciò che rimane dopo aver studiato. Dopo avere dimenticato alquanti fatti specifici a restare è una logica generale incentrata su un discorso dal quale potere accedere ai particolari attraverso il riconoscimento o soprattutto una reimpostazione della via tracciata e fatta propria da un pensiero che l’ha elaborata. Cultura, così come condizione, è anche quella di sapere da chi imparare.  Tanto significa già riconoscere gli elementi portanti così come richiesti. La scelta, dunque, dei maestri, là ove possibile, risulta già da una impostazione. Potrebbe accadere tuttavia che, allora che dispiegate alcune configurazioni, si pervenga a risultarne interessati. In tal caso essa scelta appare derivare dalle proposte che comunque devono essere riconosciute nella loro validità. La definizione di cultura può soprattutto essere riassunta anche nella celebre citazione di Aristotele ancorché ad essere usata sia la lingua latina: verum scire est per causas scire. Conoscere, in verità, - che potrebbe anche essere omesso - è il conoscere attraverso le cause. Sempre per questo filosofo una delle poche cose che non si può insegnare è la scelta del maestro che dipende già dalla capacità del giovane e non solo che ha già individuato i termini per i quali chiede appunto un riscontro o, in primo luogo, un potenziamento o ancora un dispiegamento in termini chiari e supportati.

CHIARA DE MIZIO HA ELABORATO QUESTA LEZIONE DEL PROF. ADDONA


LA SCELTA DEI GOVERNANTI

Come mai nei Paesi democratici cosiddetti più progrediti giungono a verificarsi talune situazione piuttosto difficili? In altri termini come è possibile che in alcuni Stati non si riescano ad evitare ruberie e sacche di assenza dello stato di diritto? La risposta che emerge più velocemente è quella che una parte dei voti è indirizzata a candidati che si prestano ad assecondare esse spinte in un modo piuttosto consistente presenti in alcuni cittadini e che i parlamentari da un tale fatto interessati risultano poi determinanti alla formazione di una maggioranza di governo. Appare evidente che condotta e disposizioni si trovino a derivare anche da siffatte scelte. Non potremo aspettarci, così, che persone, magari ladre o propense all’affarismo votino per elementi integerrimi. Gli interessi di quelle infatti non possono che coincidere.

Ecco perché è importante che la società sia costituita da cittadini consapevoli di un giusto e in grado, quindi, di poter esprimere una società di diritto ovverosia legale e garante dei vari componendi di essa. Partecipazione questa che non può prendere corpo nel momento stesso che non si muova da quei termini intersoggettivi che riconoscono la funzionalità di una società incentrata, appunto, sui vari soggetti, fatto questo che porta tra l’altro a quella gestione aperta e responsabile. Partecipare significa riconoscere sé tra gli altri, facendo emergere quanto non fuorviante denunciandolo all’opinione pubblica, fatto questo che significa comunicarlo agli altri soggetti con i quali si è in interazione così che correzioni possano essere, immediatamente, apportate. Opposto il discorso, dunque, a quello facente leva su interessi particolari per tutelare i quali si viene meno a quella relazione portata da una ragione e da valere universalmente almeno finché alla luce del sole non passino quelle richieste che si è soliti chiamare politiche e sociali su particolari condizioni incentrate e che arrivano a concretizzarsi per lo più in partiti e movimenti di diversa impostazione.

Chiamati, dunque, ad esprimere il voto non possono che volgersi a quanto arriva a rappresentarli. Altri che si facessero adescare da falsi miti o da programmi allettanti, perdendo di vista quello che già Platone riteneva il bene comune e che anche Aristotele reputava che allora che eliminato a prodursi era il danno di coloro stessi che si trovavano a governare per avere ottenuto una maggioranza. Proprio espropriando la minoranza si gettano le basi per la disgregazione stessa di esso potere in essere. In assenza di un riconoscimento degli altri, ancorché nelle diversificazioni, ciascuno Stato prepara la propria rovina.

Emerge con evidenza, quindi, il ruolo che la scuola deve svolgere e che è rappresentato dallo stimolare quella consapevolezza critica che porta il giovane a diventare cittadino ovverosia soggetto tra i soggetti in uno stato libero perché incentrato sulla ragione che rappresenta quanto arriva in uno a collegare e a sostenere. Ove quella non svolgesse un tale compito, non potrebbe ritenersi una “Istituzione” e tale altresì da essere mantenuta a spese dello Stato, ovverosia della collettività. Tanto dovrebbero considerare coloro che la costituiscono e che si trovano a beneficiare dei suoi mezzi.  Tocca a essa, dunque, anche correggere la disinformazione che è alla base degli errori e di quelle stesse scelte che possono risultare devastanti sia il cittadino che la comunità costituita.

La critica, quindi, condotta con i giovani, deve poter ovviare soprattutto a tanto, fornendo i docenti quegli strumenti idonei affinché ci si rivolga alla comprensione al di là degli stessi termini in essere ovvero di quelli che arrivano a configurarsi quali fatti da indagare, dunque, nella loro composizione ed effettività. A tutto ciò non può che risultare legata la condotta di coloro che a scoprire una validità devono indirizzare. Come potrebbe un giovane credere in una società giusta allora che notasse una assegnazione di voti non consona al discorso critico portato avanti o anche ai risultati ai quali ciascuno studente della classe sia pervenuto ma a muovere siano conoscenze o favori quando non proprio, ci vogliamo augurare, mercimonio a vari livelli? Basta fare mente locale a quegli Stati e a quegli ambienti dove il cittadino partecipa con serietà ed impegno costanti e a quegli altri invece in cui a prevalere siano populismi o, all’opposto, dittature. In conclusione, “ognuno ha gli amministratori che si merita”.

 Una lezione del prof. Addona riportata da Chiara De Mizio, II C.

LA LOGICA DELL'INNAMORAMENTO

Può l’innamoramento rispondere a una logica? La citazione del filosofo francese Jean-Jacques Rousseau “tutti guadagnano l'equivalente di quello che perdono” può essere applicata anche alle relazioni amorose? Perché tanto valga vi è bisogno che l'una persona dia all'altra tanto quanto riceve. Nel caso in cui ciò non accada (ad esempio allora che uno dei due dia meno di quello che riceve o addirittura nulla), il meccanismo si inceppa e la relazione si complica fino ad arrivare ad una conclusione. Eppure tanto può non valere allora che costu voglia avere l’altro reputando di no poterlo sostituire ancorché non risulti ripagato come vorrebbe. Si tratta di considerare l’oggetto del piacere così come possesso, di ritenere l’altro tale da non chiedere nulla proponendosi in quella totalità e generalità senza chiedere nemmeno una conferma o recepire il messaggio di ritorno al punto magari che questo giunga a fare da supporto se non proprio da condizione. Attraverso questi vari passaggi sembrerebbe dispiegarsi esso amore ancorché a connotarlo specificamente si esso profondersi generale senza riservarsi di chiedere alcunché al di là di quello tuttavia offerto e che con immenso piacere è recepito. Viene da chiedersi: può tanto ancora valere dopo l’individualismo al quale è pervenuta la società contemporanea che, per larga parte, come sembrerebbe, ha infranto il vincolo con una universalità o, più propriamente, si è posta fuori da una tale dimensione? Se ancora non si tratta specificamente di una valutazione pure sembrerebbe che a prevalere sia una proporzione tra le due cose, dare affinché si riceva, do ut des.

Nel caso altresì che qualcuno crescesse tanto a livello umano spingendo la sua sensibilità ad una universalità lasciandosi dietro gli altri, si troverebbe a dover relazionarsi con persone che non potrebbero restituire quello che profonde. A risultare svantaggiato sarebbe cioè proprio colui o colei che “hanno” di più. Gli altri infatti si troverebbero a beneficiare di un tale “pacchetto” “offrendo” di meno. Da tanto l’importanza di non crescere da soli ma insieme agli altri in una intersoggettività nella quale a intervenire ma a distanza per godere sotto l’aspetto teoretico è anche una intelligenza che può intervenire ma solo all’occorrenza e per il resto lasciar “correre” ciò che come sensibilità arriva ad esplicarsi e a trovare il proprio corrispettivo che però non può urtare con l’impostazione di base. Per un approfondimento al riguardo può consultarsi G. Addona, “Sensibilità e Ragione”, Bonanno editore o guardare il video in cui Giuseppe Addona affronta il tema “Tempo e identità del soggetto”        https://www.youtube.com/watch?v=YmxDR2PPeRQ.

Oppure cercando il canale YouTube “Giuseppe Addona”.

        Una lezione del prof. Addona riportata da Chiara De Mizio, II C.

 

LA LEGITTIMA DIFESA

Nello Stato italiano, stato di diritto (liberale, democratico e socialista) secondo la Costituzione, la persona è SACRA e INVIOLABILE e non può essere perseguita se non nei termini e nei modi previsti dalla legge. La vita dunque, ha la precedenza su tutto. Tanto premesso, un ladro che entrasse in una casa non può essere ucciso, per recuperare la refurtiva o impedirla. Tra i beni e la vita lo Stato tutela la vita che ritiene molto più importante. Proprio però per il fatto che la vita è sacra e inviolabile tale risulta anche quella del cittadino e degli altri familiari o delle persone comunque presenti. Ove questi “innocenti” rischiassero di perdere la vita e si trattasse di scegliere, allora e solo allora è possibile e purtroppo da ritenere “doveroso” difendersi, anche se ad essere sacrificata è ancora una vita. Su siffatte premesse appare evidente che, ove si potesse, quella vita andrebbe risparmiata e conservata. Ove, infatti, si potesse fermare colui che attenta alla vita di qualcuno senza procedere nell’atto che possiamo ritenere finale, bisogna porre in essere ogni atto volto a tutelare senza uccidere. Proprio tanto rappresenta la “ratio” che sottostà alla legittima difesa. Si vede bene che il problema “prima” che interessare la giurisprudenza è affrontato dalla filosofia, che potremmo ritenere anche, specificamente, filosofia del diritto. Si tratta infatti di riconoscere e di applicare una logica che arriva a essere legata a concezioni di ordine filosofico, ovverosia razionale per fare emergere una validità degli assunti e di quanto a questi coerentemente consegue.

Ogni qual volta dunque si oltrepassa il limite così come delineato si eccede nella difesa e quindi si transita nell’illecito, ovvero in quello che la legge prevede e contempla come reato. Si vede bene che ove le condizioni e le concezioni fossero diverse potrebbe emergere anche il contrario. Allora infatti che fossero la proprietà o l’abitazione a essere ritenute inviolabili, a presentarsi sarebbe una visione contraria. Su un tale assunto potrebbe essere giustiziato o sacrificato a seconda degli ulteriori punti di vista colui che violasse un tale “sacrosanto” diritto. Da tanto emerge l’importanza delle assunzioni ovvero dei termini per i quali si opera. A presentarsi non è quindi un oggetto così come un assoluto di fronte che, in quanto tale, già per Kant era inconoscibile ma quanto ritenuto che risulta corrispettivo di quel fenomeno in esse condizioni. Speriamo almeno di avere fatto emergere i termini per un giudizio avendo fatto leva su una indagine filosofica che ancora una volta non possiamo che rilevare nella sua enorme importanza quantomeno chiarificatrice.

Una lezione del prof. Addona riportata da Chiara De Mizio II C.                                                                                          

venerdì 13 aprile 2018



LA MATEMATICA COME CONVENZIONE NON RICOLLEGABILE ALLA REALTÀ

Ricollegandoci al discorso dell'intersoggettività e dell'errato utilizzo del termine oggettività, possiamo analizzare anche la matematica ed in particolare la definizione di numero. Alcuni ritengono che il numero sia un ente reale e razionale, commettendo un grave errore: è semplicemente un ente convenzionale adoperato dalla comunità per esprimere un concetto intersoggettivo quale rappresentato appunto dal numero. Noi abbiamo la certezza che ciò che noi identifichiamo con tre sia realmente equivalente a quella determinata quantità; ne consegue che non esiste qualcosa di assoluto; una verità data ma semplicemente una verità per molti o anche per tutti gli esseri razionali che sono pervenuti a recepire quel sistema costituito da quel tipo di comunicazione. Non possiamo nemmeno ritenere che esista una precisione. Compiendo un esperimento, la scienza moderna approda ad una formula matematica per cercare di spiegare un fenomeno. Al contrario, con questa, si accinge a recepire un procedimento. Appare impossibile che la realtà possa essere letta interamente con gli strumenti dalla matematica approntati. Risulterebbe strano che essa realtà possa risultare corrispettvo di un qualcosa predisposto a cominciare da un metro. La misurazione, infatti, non rappresenta altro che un sistema che si approccia ad un altro sistema nemmeno tuttavia pensabile già come tale. (Allora che usiamo il sistema decimale non potremo che ottenere risultati da esso dipendenti, ad emergere cioè non saranno i centesimi. Nel momento che ne approntiamo uno centesimale, lasceremo fuori quanto esso non può misurare e così via. Noi non avremo, dunque, mai dati certi ed inconfutabili, perchè ci sarà sempre un margine di errore e di imprecisione.

Chiara De Mizio, IIC





LA DIFFERENZA TRA ANALISI FILOSOFICA E OPINIONE POPOLARE

Analizzando un testo del filosofo David Hume, riguardante la critica al concetto di sostanza, possiamo notare la concezione che diversifica quella che possiamo ritenere una persona non addentro alla scienza e quello che perviene a concepire la filosofia. Osservando un qualcosa, quale potrebbe essere un isolotto, alquanti non prendono in considerazione se stessi. In una siffatta modalità la ricezione si connota quasi come un assoluto ovvero semplicemente per se stessa così come constatata presentarsi di fronte. Sono pervenuti, tali esistenti, infatti, a ritenere esso isolotto quale un oggetto. Costoro non prendono in considerazione la relazione soggetto-oggetto. Il semplice fatto di averlo percepito con la vista basta a far ritenere loro che quello è un oggetto che semplicemente esiste. Ad una indagine filosofica invece ad emergere è la stessa relazione. Il soggetto arriva a considerare che è esso a percepire un tale isolotto e in quei termini. Tanto indirizza a valutare i risultati tenendo conto delle condizioni. Se un errore arriva a dipendere da queste può essere probabilmente riscontrato e forse anche risolto. A emergere, dunque, è l'importanza di una ricerca, per la quale a derivare è una consapevolezza dei termini in campo.

Chiara De Mizio, IIC da una lezione del prof. Addona


AL DI LÀ DELL'OGGETTIVITÀ: IL RECUPERO DELLA SOGGETTIVITÀ

Possiamo notare, dopo Cartesio, i filosofi fanno leva sull'Io e sulla percezione o appercezione di questo. L’oggettività lascia il posto alle condizioni conoscitive a esso io riconducenti. A presentarsi, da Kant in poi è una intersoggettività, rappresentata da quelle individuazioni che sono constatate essere comuni tra soggetti: il colore giallo ad esempio è definito tale perché la comunità dopo averlo indicato come tale lo riconosce. Tanto non sta a significare che quella sia la sua realtà, ma semplicemente risulta recepito in siffatti termini intersoggettivamente e, in ultimo, per convenzione. Su siffatte condizioni procede quella conoscenza con quanto arriva a essere ritenuto scientifico perché misurabile per quei parametri e controllabile.

Chiara De Mizio, IIC

lunedì 15 gennaio 2018

UNA INDAGINE FILOSOFICA SUL BULLISMO

Ad una prima osservazione sembrerebbe che quelli che fanno i bulli è perché non si sentono realizzati ovvero non risultano appagati per un loro essere ma hanno bisogno di sentirsi importanti confrontandosi con altri che arrivano ad affondare e ad offendere ovverosia, in ultimo, ad oltraggiare. Chi infatti tende a cogliere un proprio essere ad valutare altresì continuamente perché possa reggere rispetto alle contraddizioni che, in caso contrario, pervengono ad annullarlo, non ha bisogno di comportarsi in modo da oltraggiare gli altri né vale il riscontro fornito da altri che arrivano ad inserirsi in quella tipologia. Costoro tutti insieme non rappresentano né una validità né soprattutto quella generalità che può emergere da una riflessione prima ancora che da una riconduzione per la quale a essere trovata è l’universalità da una ragione rappresentata.

Chi bullizza, dunque, naviga nel particolare incentrato su un Ego che tende ad espandersi e però addirittura in negativo: costui non si preoccupa, infatti, di incrementare un proprio esistere ma di abbassare e ergersi dunque su chi di fronte arriva a essere considerato tanto inferiore fino a essere ritenuto un diverso sul quale ogni azione, anche violenta, sia morale che materiale, è ritenuta possibile e forse anche dovuta. Proprio la limitatezza in cui naviga lo porta a doversi sentire superiore in un percorso né autonomo né appagato. Autonomia che non significa solipsismo poiché a essere interessata è quella ragione che accomuna fino a prospettarsi come avvertire umano, fatto questo, propriamente, attenere ad una sensibilità.

Tu dunque che aspiri a sentirti superiore e ti impegni ad inventare nuove scene a partecipazione delle quali chiami amici e conoscenti, significa che non ti riconosci in una dimensione generale quale un soggetto tra gli altri soggetti. Hai bisogno di arrampicarti sulla cavia di turno per sentirti diverso. Non al tuo buonismo ci rivolgiamo, ma a una valutazione che tu possa portare avanti. Ove ti spingessi avanti con una indagine potresti facilmente rilevare che a essere chiamati in causa sono quantomeno due gruppi. Quello di coloro che vuoi affossare e quello costituito da coloro ai quali ti rivolgi perché approvino o addirittura godano del tuo operato che, dobbiamo ritenere, consideri, più che probabilmente, splendido e tale da ottenere plausi.

Chi è appagato in se stesso non ha bisogno di rifarsi su persone ritenute più deboli e che debbono fare da vittime per la tua realizzazione che diventa ridicola appena a presentarsi è quella consapevolezza, solo per la quale è possibile sperare in un’umanità effettiva come riscontro per l’altro che è un altro se stesso. Tanto emerge in termini scientifici nei quali speriamo di incontrare te insieme a tutti gli altri.

Mariagiulia Zitolo II C