lunedì 27 marzo 2017

Riflessioni su una concezione finalistica della natura

Ma nasce un dubbio: che cosa vieta che la natura agisca senza alcun fine e non in vista del meglio, [A essere affrontata da Aristotele è una concezione finalistica di quella che è ritenuta una natura] bensì come piove Zeus, non per fare crescere il frumento, ma per necessità (difatti ciò che ha evaporato, deve raffreddarsi e, una volta raffreddato, diventa acqua e scende giù: e che il frumento cresca quando questo avviene, o un fatto accidentale)? [Aristotele sembra procedere muovendo da un assunto constatato tuttavia attraverso varie esperienze e relazioni prodotte] E, parimenti, quando il grano, poniamo, si guasta sull’aia, non ha piovuto per questo fine, cioè affinché esso si guastasse, [Il grano, ai primordi della “civiltà”, era mietuto con un falcetto ricavato da un ramo ricurvo spaccato a metà in senso longitudinale nel quale inserivano pezzetti di selce (tipo di pietra tagliente) che fungevano da denti] ma questo è accaduto per accidente. E, quindi, nulla vieta che questo stato di cose si verifichi anche nelle parti degli esseri viventi [la constatazione emergente dagli incroci prodotti arriva ad essere traslata anche agli esseri viventi. Esse parti infatti avrebbero potuto comporsi per spinte non rispondenti ad un fine.] e che, ad esempio, per necessità i denti incisivi nascano acuti e adatti a tagliare, quelli molati, invece, piatti e utili a masticare il cibo; ma che tutto questo avvenga non per tali fini, bensì per accidente. E così pure delle altre parti in cui sembra esserci la causa finale. [A essere messa in dubbio è, in ultimo, una tale causa finale e però provenienti siffatte considerazioni da confronti e da ipotesi.]

E, pertanto, quegli esseri, in cui tutto si è prodotto accidentalmente, ma allo stesso modo che se si fosse prodotto in vista di un fine, si sono conservati per il fatto che per caso sono risultati costituiti in modo opportuno [Aristotele appare anticipare Darwin, il quale tuttavia sperimenta tali eventi. Una natura, dunque, potrebbe produrre casualmente talune caratteristiche che risultano poi funzionali alla conservazione di essi esistenti]; quanti altri, invece, non sono in tale situazione, si sono perduti o si van perdendo, come quei buoi dalla “faccia umana” di cui parla Empedocle [Aristotele fa leva infatti su quanto accaduto o comunque riportato al punto tale da muovere le riflessioni. Alcune specie sono rilevate, infatti, essersi estinte].

Questo, o su per giù questo, è il ragionamento che potrebbe metterci in imbarazzo: ma è impossibile che la cosa stia così. [Rispetto a quello che possiamo ritenere un ragionamento incentrato sulle tesi degli avversari, Aristotele si accinge ora a produrre quello diverso.] Infatti, le cose ora citate e tutte quelle che sono per natura, si generano in questo modo o sempre o per lo più, mentre ciò non si verifica per le cose fortuite e casuali. [Proprio la costanza di un tale dispiegarsi porta Aristotele ad optare per la tesi del finalismo. Un fine, infatti, appare indirizzare ad un’unica conclusione e organica.] Difatti, pare che non fortuitamente né a caso piova spesso durante l’inverno [se di inverno piove di più, sembrerebbe questa l’argomentazione di Aristotele, c’è un motivo, che lo induce a ritenere un fine che però potrebbe essere rappresentato anche da una causa efficiente]; ma sotto la canicola, sì (mordeva il caldo come un cane); né che ci sia calura sotto la canicola; ma in inverno, sì. Dal momento che, dunque, tali cose sembrano generarsi o per fortuita coincidenza o in virtù di una causa finale (o per una causa che spinge in un modo casuale o in base ad una causa finale), se non è possibile che esse avvengano né per fortuita coincidenza né per caso, allora avverranno in vista di un fine. [La ritenzione è vista derivare dalla negazione delle altre possibilità, ammesse che siano o constate. A non essere prodotte, tuttavia, sono proprio le motivazioni che escludono le altre.] Ma tutte le cose di tal genere sono sempre conformi a natura, come ammettono anche i meccanicisti. [Proprio su una conformazione giunge a ricavare che a essere presente sia un fine. In caso contrario gli elementi dovrebbero rispondere semplicemente alla spinta, benché anche questa risultante da costituzioni così come configurantesi anche nel loro permanere ovvero continuare in siffatti termini.] Dunque, nelle cose che in natura sono generate ed esistono, c’è una causa finale.

Inoltre, in tutte le cose che hanno un fine, in virtù di questo si danno alcune cose prima, altre dopo. [Quelle, dunque, che presentano un fine, sembrano esprimere organicamente un prima e un dopo anziché dispiegarsi per quanto venuto a concretizzarsi quando non per puro caso, fatto questo che a questo punto dovrebbe essere escluso.] Quindi, come una cosa è fatta, così essa è disposta per natura e, per converso, come è disposta per natura, così è fatta, purché non vi sia qualche impaccio. [a essere applicata è ancora la precedente argomentazione, che, abbiamo visto, potrebbe valere per altra causa,] Ma essa è fatta per un fine; dunque per natura è disposta ad un tale fine. [l’affermazione appare rispondere a una tautologia] Ad esempio: se la casa facesse parte dei prodotti naturali, sarebbe generata con le stesse caratteristiche con le quali è ora prodotta nell’arte (perché io metto insieme le pietre per avere un fine); [tanto significa traslare su una natura quanto rilevato interessare l’uomo] e se le cose naturali fossero generate non solo per natura, ma anche per arte, essere sarebbero prodotte allo stesso modo di come lo sono per natura. Ché l’una cosa ha come fine l’altra.

Insomma: alcune cose che la natura è incapace di effettuare, l’arte le compie; [proprio una tale considerazione appare sottrarre alla natura parte almeno di quanto pure in precedenza attribuito] altre, invece, le imita. E se, dunque, le cose artificiali hanno una causa finale, è chiaro che è così anche per le cose naturali [potrebbe, tuttavia, non essere affatto così, tenuto conto che si tratta di elementi semplicemente associati]: infatti, il prima e il poi si trovano in rapporto reciproco alla stessa guisa tanto nelle cose artificiali quanto in quelle naturali. [il discorso arriva a fare leva su quanto constatato e atteso.] Ma in particolar modo ciò è manifesto negli altri animali che non agiscono né per arte, né per ricerca, né per volontà: tanto che alcuni si chiedono se alcuni di essi, come i ragni e le formiche e altri di tal genere, lavorino con la mente o con qualche altro organo [larga parte della robotica attuale ritiene di non lavorare più con l’intelligenza, ma con una riproduzione automatica di quelli che sono recepiti quali istinti]. E per chi procede così gradatamente, anche nelle piante appare che le cose utili sono prodotte per il fine, come le foglie per proteggere il frutto. [Una tale finalità è superata dalle scoperte successive.] Se, dunque, secondo natura e in vista di un fine la rondine crea il suo nido, e il ragno la tela, e le piante mettono le foglie per i frutti, e le radici non su ma giù per il nutrimento, è evidente che tale causa è appunto nelle cose che sono generate ed esistono per natura (agiscono per un fine). [Un tale fine è, ancora una volta, ammesso.] E poiché la natura è duplice, cioè come materia e come forma, e poiché quest’ultima è il fine e tutto il resto è in virtù del fine, questa sarà anche la causa, anzi la causa finale. [È appena il caso di considerare che se piuttosto facile appare ritenere che il bambino si muova e cresca in vista di essere adulto, sarebbe piuttosto sciocco reputare che l’adulto proceda per diventare vecchio e il vecchio si muova per approdare alla morte].

Del resto si riscontrano errori anche nei prodotti dell’arte (il grammatico scrive in modo scorretto e il medico sbaglia la dose del farmaco); è ovvio, quindi, che ciò può accadere anche nei prodotti naturali. Se vi sono, dunque, cose artificiali in cui ciò che è esatto, è tale in virtù della causa finale, mentre nelle parti sbagliate pur si è mirato ad un fine, ma non si è riusciti a conseguirlo, la medesima cosa avverrà anche nei prodotti naturali, e i mostri risultano sbagli di quella determinata causa finale. [Una causa dovrebbe essere trovata anche a esso errore anziché attribuirlo semplicemente al caso.] E, nelle fondamentali strutture fisiche, se i bovini non fossero stati in grado di raggiungere un certo termine o un certo fine, ciò si sarebbe dovuto far risalire alla corruzione di un qualche principio, come è corrotto il seme nel caso dei mostri.

Aristotele, Fisica, 198b-199b, in Opere, a cura di G. Giannantoni, Laterza, Roma-Bari 1973

Una lezione del prof. Addona riportata da Francesco D’Andrea, I C.

INDUZIONE E DEDUZIONE. INTUIZIONE E DIMOSTRAZIONE

Ogni dottrina ed ogni apprendimento, che siano fondati sul pensiero discorsivo si sviluppano da una conoscenza preesistente. [Si tratta, infatti, di procedere dal noto così che possano emergere elementi non al momento espliciti e che quindi arrivano a essere conosciuti. Questi non derivano comunque da altro che da ciò da cui si muove. Se con la dimostrazione si pongono in essere alcuni passaggi, pure questi non risultano estranei all’intuizione, la quale, infatti ciascuna volta coglie le relazioni e allora che tanto non accada quella si rifà al precedente che arriva a fare da garanzia ovvero da base,] Ciò risulta chiaro, quando si considerino tutte le dottrine e le discipline: in realtà, alle scienze matematiche ci si accosta in questo modo, e lo stesso avviene riguardo a ciascuna delle altre arti. [Diverso il discorso che riguarda l’intuizione. Per questa arrivano ad essere colti immediatamente i termini e nelle loro relazioni. Per quanto concerne l’induzione si tratta di quel processo per il quale si va a costruire il generale sommando i particolari. Con una tale operazione non si perviene ad una universalità e quindi ad una necessità allora he da un tale apparato di “deduca” il particolare.] […]

D’altro lato, noi pensiamo di conoscere un singolo oggetto assolutamente – non già in modo sofistico, cioè accidentale – non per l’aspetto, ma proprio conoscendolo quando riteniamo di conoscere la causa in virtù della quale l’oggetto è, sapendo che essa è causa di quell’oggetto [Aristotele sembra abbandonare il percorso per il quale un qualcosa arriva a essere ritenuto in termini generali per volgersi all’oggetto considerato nel suo essere ovvero al di là dei vari aspetti o accidenti]

[…] ora però chiamiamo sapere il conoscere mediante dimostrazione solo chi sa dimostrare quello che dice, sa. Per dimostrazione, d’altra parte, intendo il sillogismo scientifico, e scientifico chiamo poi il sillogismo in virtù del quale, per il fatto di possederlo, noi sappiamo. Se il sapere è dunque tale, quale abbiamo stabilito, sarà pure necessario che la scienza dimostrativa si costituisca sulla base di premesse vere, prime, immediate, più note della conclusione [il discorso infatti resta incentrato sulle condizioni con i passaggi che, a propria volta, non debbono contenere errori poiché, ove presenti, questi si riversano sulle conclusioni] […] In realtà, un sillogismo potrà sussistere anche senza tali premesse vere, [ma da una dimostrazione su tanto incentrata non potrebbe che emergere il falso ovvero quanto derivante da siffatte premesse].

 Aristotele, Analitici secondi, I, 71a-b, trad. it. Di G. Colli, in Opere, cit., vol. 1, pp. 259, 261-263

Articolo scritto da Francesco D’Andrea, I C. da una lezione del prof. Addona.
IL SILLOGISMO COME FORMA LOGICA PERFETTA
Una volta stabilite queste precisazioni, possiamo dire ormai attraverso quali elementi, in quali occasioni ed in qual modo si produca ogni sillogismo; in seguito si dovrà parlare della dimostrazione. Occorre invero trattenere del sillogismo prima che della dimostrazione, poiché il sillogismo ha un grado maggiore di universalità la dimostrazione può essere relativa solo agli angoli interni di un triangolo, invece il sillogismo vale quasi per tutto. La dimostrazione è infatti un particolare sillogismo, mentre non tutti i sillogismi sono dimostrazioni perché alcune volte si esce dal discorso e Aristotele l’aveva ben capito.

Orbene, quando tre termini stanno tra di essi in rapporti tali, che il minore sia contenuto nella totalità del medio, ed il medio sia contenuto, o non sia contenuto, nella totalità del primo il medio sia contiene sia è contenuto, è necessario che tra li estremi sussista un sillogismo perfetto. Da un lato, chiamo “medio” il termine che tanto è contenuto esso stesso in un altro termine, quanto contiene in sé un altro termine, e che si presenta come medio anche per la posizione; d’altro lato, chiamo “estremi” sia il termine che è contenuto esso stesso in un altro termine, sia il termine in cui un altro termine è contenuto.
                                                                                                  


    A       B

B       C

A       C

In effetti, se A si predica di ogni B, e se B si predica di ogni C, è necessario che A venga predicato di ogni C. già prima infatti si è detto in che modo intendiamo il venir predicato di ogni oggetto.
Similmente poi, se A non si predica di nessun B, e se B si predica di ogni C, A non apparterrà a nessun C ragionamento scontato dato che viene messo fuori. Se il primo termine si predica del secondo, ma il terzo non è contenuto nel secondo, allora il terzo non sarà contenuto nel primo. Per contro, se il primo termine appartiene ad ogni oggetto che può essere indicato dal termine medio, e se il medio non appartiene a nessuno degli oggetti che possono venir indicati dal termine minore, tra gli estremi non sussisterà sillogismo, poiché non risulta nulla di necessario per il fatto che si diano queste premesse se non si introduce che Socrate è uomo, è chiaro che non si avranno conseguenze. In effetti, può accadere che il primo termine appartenga ad ogni oggetto ed a nessun oggetto, tra quelli che possono venir indicati dal termine minore ragiona sia in positivo che in negativo, cosicché non diventa necessaria né una conclusione particolare, né conclusione universale. Non sussistendo così alcuna conclusione necessaria, attraverso queste premesse non si darà sillogismo non ci sarà sillogismo se non ci saranno queste condizioni.
Se poi in una premessa un termine si congiunge in forma universale con l’altro, e nella seconda premessa un termine si congiunge in forma particolare con l’altro, è necessario che il sillogismo risulti perfetto, quando la premessa universale, sia affermativa che negativa, comprende l’estremo maggiore, mentre la premessa particolare, che sia affermativa, comprende l’estremo minore, ed è invece impossibile che si dia sillogismo quando la premessa universale comprende l’estremo minore, oppure i termini si comportano in qualsiasi altro modo. Chiamo “estremo maggiore” il termine in cui è contenuto il medio, ed “estremo minore” il termine che è subordinato al medio. Supponiamo infatti che A appartenga ad ogni B, e che B appartenga a qualche C. in tal caso, se il venir predicato di ogni oggetto consiste in ciò che si è detto da principio, è necessario che A appartenga a qualche C. Inoltre, se A non appartiene a nessun B, e se B appartiene a qualche C, è necessario che A non appartenga a qualche C; si è pure definito, infatti, in qual senso intendiamo l’espressione “venir predicato di nessun oggetto”. Di conseguenza, vi sarà sillogismo perfetto.

(Aristotele, Analitici primi, I, 25b-26a, trad. it, di G. Colli, in Opere, cit., vol. 1, pp. 90-92)

Francesco D’Andrea, I C.
L’azione del motore immobile
[…] esiste, quindi, qualcosa che è sempre mosso secondo un moto incessante - dato per scontato che ha trovato che il movimento esiste sempre, noi troviamo un qualcosa che è continuamente mossa, - e questo moto è la conversione circolare - Aristotele è convinto che il moto per eccellenza sia quello circolare, perché continua tornando sempre al punto di partenza e non va all’infinito - (e ciò risulta con evidenza non solo in virtù di un ragionamento - con il ragionamento coglie che, se il moto non è circolare, è rettilineo e quindi va all’infinito, ma l’infinito Aristotele non lo può ammettere perché deve trovare un principio, - ma in base ai fatti - fatti osservati? -), e di conseguenza si deve ammettere l’eternità del primo cielo e - ammette quindi che, siccome gli astri girano in modo circolare, il moto circolare è eterno dato che gli astri sono eterni. Qui però dice sciocchezze perché applica le proprie considerazioni del pensiero a una fisica che non risulta corrispettiva ai fatti, ma più al proprio pensiero. - Ed esiste, pertanto, anche qualcosa che provoca il moto del primo cielo dato per scontato che il moto c’è, deve ammettere una causa e questa provoca il moto del primo cielo, e probabilmente anche di tutti gli altri. Ma poiché ciò che subisce e provoca il movimento è un intermedio, c’è un qualcosa che provoca il movimento senza essere mosso, un qualcosa di eterno che è, insieme, sostanza e atto perché? Se fosse potenza ammetterebbe movimento ad essere, quindi non possiamo ammettere movimento in potenza perché arriverebbe all’infinito e per questo lo mette in atto.
Un movimento di tal genere [il movimento del primo cielo] è provocato sia da ciò che è oggetto di desiderio sia da ciò che è oggetto di pensiero siccome è atto, non può desiderare qualcosa di concreto e qui Aristotele è convinto che si tratti di un atto puro senza materia. Perché questo movimento deve attrarre e non può muovere? Dovrebbe compiere un lavoro, invece lui, essendo perfetto in sé, lo attrae. Ma questi due oggetti, se vengono intesi nella loro accezione più elevata, sono tra loro identici perché tu desideri ciò che pensi e pensi ciò che è effettivo. Infatti, è oggetto del nostro desiderio il bello del suo manifestarsi quando si manifesta lo consideriamo perché vogliamo unirci, mentre è oggetto principale della nostra volontà il bello nella sua autenticità quando lo riconosciamo come autentico e migliore di tutti. Passaggio logico; ed è più esatto ritenere che noi desideriamo una cosa perché ci si mostra bella, anziché ritenere che essa ci sembri bella per il solo fatto che noi la desideriamo ma è possibile che in tanti secoli ancora non si sia capito?: principio è, infatti, il pensiero.
(Metafisica, XII, 7, 1072°, in op. cit, pp. 354-355).

Francesco D’Andrea, I C.

lunedì 13 marzo 2017

COME L’ECCESSIVA CRITICA TENDE A FALSIFICARE

A proposito della premessa maggiore del sillogismo

Nel nostro libro di filosofia è riportato “per Aristotele, infatti, il rapporto tra due determinazioni di una cosa si può stabilire solo sulla base di ciò che essa è necessariamente, cioè sulla base della sua sostanza.  Per tornare al nostro esempio, volendo decidere se l’uomo è mortale, non si può che guardare alla sostanza dell’uomo (a ciò che l’uomo non può non essere)”. Abbiamo apprezzato l’impegno e l’acume dell’autore di queste considerazioni di spingersi in un’indagine approfondita al punto da ritenere alla base del sillogismo una sostanza, così come Aristotele in alcuni passi ha voluto proporre. Tanto però non appare rispondere a quello che Aristotele riteneva a proposito della costruzione di essa premessa. Egli perviene al concetto dopo avere osservato gli individui. Da una tale serie perviene alla costruzione delle premesse. Diverso e necessario risulterebbe, invece, il discorso allora che fosse possibile cogliere la sostanza così che una predicazione si trovasse da essa a derivare. La premessa maggiore, infatti, non risulta affidata a una sostanza, rappresentando una costruzione che non può costituire un universale, fatto questo dal quale si trova a derivare una validità delle conclusioni. Una eventualità diversa non arriva dunque ad essere esclusa. Di tanto Aristotele era ben consapevole.

Articolo scritto dalla IC da una lezione del professore Addona

giovedì 9 marzo 2017

IL TEMPO NELLA CONCEZIONE ARISTOTELICA

Aristotele, che è convinto che il movimento non possa nascere, al punto da risultare corrispettivo ad un principio che assume così come primo motore immobile, reputa, in ogni caso, che o c’è sempre o non può prodursi […] “lo stesso dicasi per il tempo (giacché il prima e il poi non potrebbero esistere se non esistesse il tempo).” Aristotele, oscillando tra il ritenerlo un qualcosa di intrinseco e incentrato su un esterno, percepisce la difficoltà di una individuazione di quello. Egli recepisce quella stessa che rappresenterà la concezione moderna di quello, fatto questo che però perviene ad abbandonare per quell’essere sul quale ritiene incentrata la conoscenza. Cos’è dunque esso tempo? Se c’è un tempo in esso si distinguono in un prima e un dopo gli elementi che, infatti, in esso vanno a prendere corpo. Potrebbe, altresì, essere portato dalle cose allora che arrivassero a disporsi per se stesse al punto da esprimere quello. Quello potrebbe preesistere, dunque, o nascere con quelle. Considerato un qualcosa, fatto questo che, per Aristotele, dovrebbe valere ad indicare una sua realtà, così come accade al movimento, deve esserci sempre. Nel momento stesso, infatti, in cui ci chiediamo cosa ci fosse prima di questo, staremmo già parlando di tempo che però arriva ad interrompersi per fare spazio ad un niente ovvero ad un suo non essere in una siffatta configurazione. Esso tempo giunge così a essere ritenuto continuo come continuo è stato concepito il movimento. Le cose che si muovono sono misurate dal tempo o meglio il movimento rappresenta il tempo stesso. Il tempo, non risultando recuperato dall’esistente, ovvero non essendo recepito nel suo dispiegarsi soggettivo – Aristotele, infatti, non arriva a caricare il soggetto né di questa né di altre realtà – non può che risultare affidato alle cose o essere concepito esso stesso come quel qualcosa nel quale le cose si muovono. Aristotele passa in rassegna le varie possibilità ancorché, in ultimo, lo affidi a quella realtà che già ha per altri versi assunto. Egli non perviene a reputare la continuità all’infinito di un tale movimento relegandolo a quello locale rappresentato a livello spaziale da quello circolare. Un movimento rettilineo o comunque non convergente su se stesso porterebbe all’infinito risolto da quel motore immobile che non ha nemmeno bisogno di produrre una causa efficiente al punto che muove come fine. In esso così come principio si risolve il tutto, ancorché sia costretto ad ammettere intelligenze per i cieli reputati non decomporsi come accade al materiale che non partecipa di quelli e della loro realtà. Un basso e un alto evitati con quel moto perfetto ovvero a dire circolare pure appaiono tornare come superiore ed inalterabile ed inferiore decomponentesi. Una causa motrice, pure affidata a potenza e atto, non appare risolvere non potendosi tra l’altro scindere essa potenza da quell’atto pure ritenuto precedere e sostenere il tutto.

Metafisica, op. cit. XII, 6, 1071b, in op. cit., pp. 351-352

Articolo scritto da Francesco D’Andrea, I C da una lezione del prof.  Addona.

lunedì 6 marzo 2017

ARISTOTELE TRA UNA RICONOSCENZA VERSO IL MAESTRO E LA VERITÀ

Aristotele, che Dante chiama “maestro di coloro che sanno”, da Stagira, dove era nato, si trasferisce ad Atene a diciassette anni dove divenne discepolo di Platone. Alla morte del maestro, fu assalito da un dubbio, riportato nella famosa affermazione latina “amicus Plato, sed magis amica veritas”. Il problema che lo assillava era: continuare a ritenere la dottrina di Platone, che l’aveva fatto diventare il massimo scienziato del tempo (e forse del mondo), o seguire quello che a lui sembrava più giusto. Alla fine optò di distaccarsi dal maestro e di seguire, quindi, il suo pensiero.

La portata di una tale risoluzione può essere ritenuta storica ed emblematica sotto l’aspetto teoretico e pratico. Non si può accondiscendere a quello che ritiene un amico solo per far piacere a costui e mantenere in piedi un rapporto anche magari molto appagante. Se l’amico è colui che sostiene e al quale affidare il proprio sé magari più recondito, pure non può essere sottaciuto l’errore che eventualmente commette. Certo non si rivolgerà a lui in termini da massacrarlo o farlo dispiacere ma interverrà perché possa migliorarsi. Ove non si esponesse resterebbero entrambi bloccati in una dimensione non valida perché non sostenibile. Quanto si presenta attuale una tale disposizione! Spesso, infatti notiamo associazioni tra persone che si autoglorificano restando in quel loro stato che possiamo ritenere invalidante ed offensivo del giusto solo sul quale può reggere una società intersoggettivamente espressa. Quanto non si riconosce possibile ad un cittadino non può essere tollerato in quella persona con la quale si condividono i momenti più belli o anche tristi. Un soggetto non può risultare che per quell’universalità nella quale potere essere riconosciuto senza scadere in una esistenzialità che non possa in alcuno modo essere sostenuta. Da tanto si trovano a derivare quelle contraddizioni rappresentate, altresì, dall’uso di due pesi e due misure. Al di là dell’unità per la quale una identificazione a dispiegarsi possono essere solo sdoppiamenti, annullanti, come tali, quella che pure tende a presentarsi come la stessa persona, fatto questo che non può risultare né ad una sua richiesta né a quelle di altri. Da tanto la validità, dunque, teoretica e pratica di una ricerca filosofica che arriva a fare emergere i termini per i quali essere.

 

Aristotele fu quasi presago di se stesso. Ritenne, infatti, che quando un filosofo abbia prodotto rilevazioni e tesi molto consistenti arriva quasi a bloccare i discepoli. Tanto dovrebbe fare da monito a quei docenti che anziché rapportarsi con gli allievi e costruire insieme senza apparire su un altro pianeta per una cultura profusa spesso si esibiscono in quella che potremmo anche ritenere una danza ammaliante e però, proprio in quanto tale, ergere un muro che poi risulterà difficilissimo da valicare per procedere oltre su quella strada tracciata dall’indagine critica che non può che accomunare.

Tra tante cose meravigliose che Aristotele disse forse due possono apparire da segnalare:

La possibilità della comunicazione e le individuazioni etiche.

                                                           

                                                                       

Lo scopritore della logica formale rende astratto e funzionale quello che forse era già insito nel principio di Parmenide. L’identità non risulta un tutt’uno con l’essere ma con ciò che arriva a essere individuato. Due persone possono ben essere in contrasto su un argomento, ma stanno comunicando perché entrambe hanno capito di cosa si sta parlando. Con un tale principio, nella famosa formulazione debole, forte e del terzo escluso Aristotele perviene a ritagliare uno spazio a quella conoscenza sottratta oramai alla retorica dei sofisti.

Un tale principio non si può insegnare: rappresenta infatti la condizione sulla quale procedere.

Altra prerogativa che spetta propriamente all’alunno è la scelta del maestro.

Articolo scritto da Francesco D’Andrea, I C da una lezione del prof. Addona

LA SOSTANZA COME SINOLO DI MATERIA E FORMA
   sinolo=composto (dal greco σύνολος)
Poiché (a causa del fatto che) i filosofi (i filosofi naturalisti, dato che sono loro a trattare dell'essere) sono generalmente (quasi tutti) d'accordo sulla sostanza nella sua accezione (significato) di sostrato (ciò che sta sotto) e materia – vale a dire sulla sostanza che è in potenza (se una persona è alta una determinata altezza, questa fa da sostrato,ed è in potenza che diventi più alta)-, ci resta da chiarire quale sia la sostanza delle cose sensibili nella sua attualità (quando si manifesta in che consiste).

[...]dovendo definire una soglia (della porta), noi diremo che essa è un pezzo di legno o una pietra che giace in una determinata maniera, e, dovendo definire una casa, noi diremo che essa è mattoni e legna che giacciono in questo altro modo […], e, dovendo definire un pezzo di ghiaccio, noi diremo che è acqua congelata o condensata in un determinato modo, e che l'accordo musicale è una determinata mistione di acuto e di grave (toni acuti e toni gravi. Ad esempio nella poesia i toni si trovano negli accenti tonici,ossia dove cade il tono della voce nella parola); e allo stesso modo a proposito delle altre cose. Dunque per definire una qualsiasi cosa ne descriviamo le componenti.
Comunque, da queste considerazioni risulta evidente che l' atto è diverso secondo la diversità della materia,(naturalmente, poiché diversa materia presenta diverse componenti) e così anche il discorso definitorio (generale): difatti, in alcuni casi esso è la composizione (unione di elementi facilmente distinguibili), in altri è la mescolanza (unione di elementi non distinguibili), in altri qualcuno degli altri modi suddetti. Perciò, quando si intende dare una definizione, quelli che definiscono, ad esempio, una casa dicendo che essa è pietre, mattoni e legna, parlano della casa in potenza (dunque elencandone le componenti); quelli che, nel definirla, aggiungono che essa è un rifugio che è in grado di preservare i beni e i corpi e che è qualche altra cosa di tal genere, ne determinano l' atto (quindi la funzione); quelli, infine, che mettono insieme tutte e due queste cose, parlano di una terza sostanza, che è anche il composto delle altre due precedenti […].
da queste considerazioni risulta con evidenza qual è la sostanza sensibile e quali sono i modi della sua esistenza: infatti, sotto un profilo essa è come materia, sotto un altro è come forma e, in un terzo senso, essa è il composto di queste due cose.

(Metafisica, VIII, 2, 1042b; VIII, 2, 1043a)


Chiara De Mizio, IC.