mercoledì 24 maggio 2017

IL TIMORE DELLA MORTE E’ IMMOTIVATO

Epicuro invita gli uomini a liberarsi dal timore della morte che arriva a costituire per costoro il problema, appunto, più rilevante. La sua etica risulta imperniata sulla liberazione dagli assilli. Il suo procedere appare incentrato su una riflessione dalla quale deve derivare quella conoscenza idonea a scoprire gli errori. Egli muove dalla constatazione che la realtà risulti per un percepire dai sensi, appunto, portato. Finché si è in vita si avverte. Va già da sé che nel momento stesso che si cessa da una vita ovvero si muore a venire meno sono propriamente esse sensazioni. Si tratta di fare emergere, quindi, gli elementi da riferire.

Quando si è vivi ci si preoccupa per la morte e non si gode la vita. Nell momento stesso però che si comprende che con la morte cessano le sensazioni essa non può essere avvertita e, dunque, è da stimare quale un niente. Risulta così che si possa godere, finché possibile, essa vita senza preoccupazione alcuna di quella. Sbaglia colui che pensa di vivere in eterno e allora che capisce che tanto non potrà accadere si rammarica. Angustiato da un tale fatto non vive con quella tranquillità. Proprio però la consapevolezza che il tempo in cui si dispiega essa vita non è eterno deve portare a godere di ogni istante. A dispiegarsi è, in questi termini, una vita appagata alla quale non fa paura una morte che come già emerso non può essere percepita. Assurdo risulta dunque il temere una cosa che non può provocare dolore. Quando ci sei tu essa non c’è e viceversa quando c’è la morte non ci sei tu. A restare è il problema costituito propriamente dalla correlazione ovverosia dal passaggio. Argomento questo affrontato nel lavoro consultabile liberamente sul sito Giuseppe Addona “Percorsi di filosofia” Edimedia. Uno degli altri farmaci che fornisce è costituito dalla liberazione dal dolore: I mali o sono forti e recidono una vita così che non risulta possibile, alla fine, avvertire dolore, o sono tali che ci si abitua. I piacere vanno altresì considerati in dodo che non possano da essi derivare dispiaceri maggiori. Si tratta di organizzare, dunque, al meglio essa vita per goderla con quanto meno fastidio possibile e dunque con il massimo piacere. Ci possiamo chiedere a questo punto se una tale gestione debba interessare anche gli altri e quindi una società o il discorso resti ancorato all’individuo come sembrerebbe verosimile da quanto emerso. Da tenere conto è che essa società si trova ad intervenire e ad incidere, quindi, sulla vita di esso esistente così che la ricerca appare da doversi ancora portare avanti.

 Articolo stilato da Francesco D'Andrea, I C. da una lezione del prof. Addona

EPICURO
Epicuro nacque nel 341 a.C. a Samo, cominciò a preoccuparsi di filosofia a 14 anni, fu discepolo di Platone al quale pensiero unì anche quello di Democrito.  A 18 anni si recò ad Atene dove assiste alle lezioni di Aristotele. a 32 anni si trasferì a Lesbo dove iniziò l’attività di maestro e tornato ad Atene, vi rimase fino alla morte.

Epicureo fu autore di molti scritti, dei quali ci restano solo tre scritti, la prima è una breve esposizione di fisica, la seconda di contenuto epico e la terza tratta di questioni mitologiche. 

                                                                                                        -Francesco D'Andrea, I C.

UNA REALTA’ STORICA PERVIENE A FORNIRE UN INDIRIZZO ALLA RICERCA

Nell’età ellenistica la cultura inizia a settorializzarsi, fatto questo che può essere letto sia in “negativo” che in “positivo”. Platone aveva iniziato a filosofare convinto di dover fare politica e prendere in mano, unitamente ad altri, la situazione della città. Aristotele era già consapevole che la politica non dipendeva da lui. Il ruolo del cittadino è stato assunto da altri a cominciare da Alessandro Magno. Lo stato più ricco e potente con l’ingresso dei macedoni-greci, in questo periodo, è l’Egitto e la città di Alessandria diventa il centro culturale dell’epoca. La quasi totalità degli scienziati si trasferisce in questa città. Alla specializzarsi appare fare da contrappunto quella visione generale che aveva caratterizzato il periodo precedente. La cultura si sposta nella biblioteca allontanandosi sempre più da quel cittadino che Socrate, innanzitutto, chiamava continuamente a partecipare. La filosofia, che prima inglobava quasi tutte le discipline tranne, in primo luogo la medicina, lascia il passo ad alquante scienze che iniziano a percorrere una strada piuttosto autonoma. Anche la tecnica comincia a separarsi dalla scienza; la prima si occupa della parte pratica, l’altra della teoria.

 Una lezione del prof. Addona riportata da Francesco D'Andrea, I C.

 

LA POETICA
Aristotele prende in esame i tipi di arte del tempo considerandole imitazioni, ma o imitano i mezzi o imitano le cose o le modalità. Due sono le cause che hanno dato origine alla poesia: l’imitare è un’istinto della natura degli uomini e l’imitazione del linguaggio per comunicare. 

                                                                                                   -Francesco D'Andrea, I C.

E’ POSSIBILE UNA POLITICA RISOLUTRICE?

Aristotele non si configura uno stato ideale ma osserva gli stati in atto e trova che esistono alcuni sono monarchici, altri tirannici, altri ancora aristocratici e quindi, oligarchici, democratici e demagogici. Egli rileva che ogni stato allora che si forma è positivo. Esso, dobbiamo ritenere, dà spazio, infatti, a ogni persona che trova nella comunità il proprio bene che insegue con le azioni che nello stato porta avanti. Lo stato è, dunque, la comunità più grande e importante. Aristotele è convinto che lo stato non abbia bisogno di altro per vivere ovvero per esistere come tale e ha come funzione di rendere possibile la vita. Lo stato esiste per natura così come le comunità esistono per natura. L’uomo è, infatti, per natura un essere socievole.

Lo stato monarchico si forma perché qualcuno che diventerà re è il migliore e gestisce in funzione di tutto il popolo. I figli di costui, invece che nascono già in una reggia senza aver fatto sacrifici, pensano pian piano che sia un proprio diritto e usano quel potere derivante dalla situazione venuta a crearsi per motivi personali facendo transitare esso stato nella tirannide. Gli aristocratici, ovvero i migliori e dobbiamo reputare a questo punto i virtuosi che hanno a cuore il bene comune, non possono sopportare un tale fatto e fanno il sacrificio di allontanare, rischiando anche la vita, il tiranno di turno, liberando, così, la città. Quando i figli degli aristocratici prendono il potere, sperperano per loro stessi svolgendo quel ruolo già caratteristico dei figli del tiranno. Il popolo, a questo punto, si ribella e prende potere. Inebriato dal potere reputa di potere ostacolare i maggiorenti e appropriarsi in una parte quale che sia dei beni di questi. Aizzato, altresì, cade nella demagogia a sollevarlo dalla situazione nella quale è finito è qualcuno che per la sua virtù arriva a svolgere le funzioni di re e così il ciclo è visto ripetersi.

È possibile, viene da chiedersi, spezzare questo circolo? A essere viste alternarsi sono virtù e quelli che possiamo ritenere vizi fino a porre in essere tra stati corrispettivi alle une e tre agli altri. A fronteggiarsi sono, in ultimo una virtù e la sua degenerazione e però in coloro che non hanno prodotto per pervenire ad una situazione politica. Tenuto conto che a essere stata rintracciata è una causa rappresentata da un godimento di situazioni di fatto si tratterebbe, da parte dei virtuosi, di far percorrere ai rispettivi figli quel percorso formativo ovvero farli passare attraverso i sacrifici. Tanto implica una consapevolezza e una forza da parte dei governanti sino, dobbiamo ritenere, a scoprire il carattere dei loro discendenti per fare in modo che quanto ha rappresentato una loro conquista non degeneri, fatto questo che implicherebbe il loro stesso fallimento. La grandezza di un uomo sembrerebbe, a questo punto, consistere nel sacrificio di giudicare i figli senza offrir loro quello che non appare meritato. Un tale discorso era stato affrontato da Platone a proposito dei filosofi che dovevano avere il coraggio di avviare ad una classe d’argento o di bronzo quelli che non erano conosciuti quali uomini d’oro. Quanti genitori oggi appaiono disposti a riconoscere i meriti di giovani che sopravanzano quelli dei propri figli?

Una lezione del prof. Addona riportata da Francesco D'Andrea, I C.

L’ETICA

L’etica è considerata in genere come quel tendere ad una dimensione che richiede un grande impegno quando non sacrifici, quasi si trattasse di un’altra realtà da raggiungere senza che ad esserne scoperti siano i risvolti. Aristotele era, tuttavia, già convinto che tutto l’agire umano fosse rivolto ad un fine da un bene rappresentato. Lo stesso bene sommo non si trova in un altro mondo, ma in questo e perviene ad essere identificato nella felicità. Per i filosofi antichi la felicità consisteva, in genere, per l’uomo nel riuscire a realizzarsi al meglio.

L’etica e la politica hanno entrambe come bene sommo la felicità. Per l’etica, però, questa risulta individuale, mentre per la politica riguarda la collettività. Se la felicità è rappresentata dal fine specifico dell’uomo, pure a variare sono gli obiettivi da un individuo ad un altro. E’ lecito ancora parlare di uomo in generale? La stessa considerazione di felicità non risulta dunque unica. Una persona che trovasse il proprio appagamento nell’alcol potrebbe sentirsi felice ubriacandosi per una vita. Simile il discorso allora che a essere considerati fossero obiettivi diversi. La considerazione di felicità dipende dalle particolari visioni, da una parte, e dall’altra dal giudizio prodotto da altri senza però che questo possa inficiare quel comportamento e quella ritenzione. Ad una valutazione può tuttavia emergere che colui che si inebria pure è in relazione con altri oltre che con ciò che consenta a lui di procurarsi quel materiale. Da valutare sono altresì i risvolti. È possibile esplicarsi in uno stato di continua ebbrezza? Ove tanto non risultasse ad emergere sarebbero i risvolti da valutare al punto che a essere chiamato in causa sarebbe l’insieme. Tanto a prescindere ancora dalla relazione tra quanto possiamo ritenere attenere a una vita vegetativa, ai sensi correlata, e soprattutto a una visione o, più specificamente, a una realtà portata da una ragione, con un intelletto quale strumento ovverosia capacità a cogliere individuazioni e ad apportare accorgimenti perché un obiettivo possa essere raggiunto. Una virtù, dunque, non risulta avulsa da una ragione né indirizzata a qualcosa di aleatorio o di teorico quasi rappresentasse una evanescenza o anche un niente.

Si tratta di riconoscere, quindi, quanto arrivi a rappresentare il meglio. Se i beni possono rappresentare un mezzo che faciliti il raggiungimento della felicità, non possono però determinarla. Questa, infatti, per Aristotele è vista dipendere da altro ovvero da quella capacità atta a cogliere quanto risulti il più funzionale possibile per un uomo che si esprima per determinate caratteristiche coniugate con quanto arriva ad esprimere in una società. Una tale connotazione arriva a rappresentare quella parte sulla quale interviene la ragione. Se una virtù, quella morale, si trova a dipendere dai costumi, quella razionale consiste nella capacità di elaborare. Eppure la ragione riesce ad individuare quanto possa risultare valido muovendo dalla situazione economica e politica che arriva ad interessare un uomo. Ad un politico ammirato e in possesso di un patrimonio vasto conviene l’essere magnifico. Non può permettersi invece di spendere molto per il pubblico colui che o non avesse risorse a sufficienza o non svolgesse un ruolo politico adeguato. Si tratterebbe in questo caso di muoversi impropriamente quale un liberale e quindi fuori da quanto constatato valido da essa ragione che arriva a valutare i vari comportamenti posti in essere.   

Né appare trattarsi, per Aristotele di quel giusto mezzo pure ritenuto e però non quale a metà, e statico che potrebbe essere indicato dall’espressione “in media re”, ma “in medias res”, ovvero rintracciato in quel dinamismo. La liberalità, infatti, non è a metà tra la magnanimità e la tirchieria, ma più vicina alla prima. Essa si presenta comunque lontana da quell’avarizia ritenuta negativa. Liberale e magnanimo sono entrambi positivi.

 

Da considerare è, altresì, il piacere, come già per Platone, di potersi raffrontare con qualcuno che prenda in considerazione colui che si propone e al quale potere trasmettere le proprie emozioni e ricevere un messaggio di ritorno. Anche rapporti di tal fatta vanno valutati.  Ad emergere è che i bambini e anche i giovani sembrano amici di tutti ed invece sono visti dimenticare i vecchi compagni di giochi sostituendoli prontamente con i nuovi. Essi si realizzano puntualmente nel luogo dove si trasferiscono con i loro genitori. I rapporti di costoro non sono profondi né fondati, possiamo aggiungere, su virtù. Costoro sembrano muoversi quasi da egoisti ponendo il gioco al primo posto con gli altri che sono considerati necessari perché tanto avvenga. Gli anziani sono ritenuti da Aristotele i peggiori. A costoro non interessano le vicende altrui ma tendono solo a raccontare le proprie. Gli altri vecchi servono solo a sostenere il sé degli altri. Anche l’amicizia vera è quella tra persone mature fondata, questa volta, sulla ragionare comprendendo così quanto possono dare prima ancora di considerare un corrispettivo da ricevere. Analogamente anche l’innamoramento ha bisogno di ragione, altrimenti risulta affidato a quanto non controllato in alcun modo, può alla prima occasione prendere una via qualsiasi e diversa quando non opposta a quella sulla quale pure ci si era, con la più grande passione e speranza, incamminati. A condizionare, in tal caso, sono i vari elementi sui quali quello si regge senza che ad intervenire possa essere quanto ulteriormente supportare. Tanto il professore Addona affronta specificamente nel libro “Sensibilità e ragione” Bonanno editore.

Una lezione del prof. Addona riportata da Francesco D'Andrea, I C.

SENSO COMUNE E SOGGETTO A PARTIRE DALLA CONOSCENZA COSI’ COME CONCEPITA DA ARISTOTELE

Per Aristotele la conoscenza muove dai cinque sensi ai quali aggiunge un senso comune. A questo attribuisce una funzione duplice: quella di rappresentarsi le sensazioni e la coscienza che, come sembrerebbe, pervenga a costituire il riferimento di queste. In caso diverso a mancare sarebbe proprio il soggetto. Chi percepisce? Come potrebbe una sensazione correlarsi alle altre e risultare organizzata in funzione di qualcosa? Quel sentire, che possiamo considerare comune, arriva a rappresentare esso esistente per il quale a essere poste in essere sono, in ultimo, le azioni. Si tratta dunque di riconoscersi come elemento incentrato su una unità. Proprio un tale riferimento arriva a rappresentare il termine in rapporto con gli altri fino ad essere riconosciuto in quel suo proporsi per l’organizzazione che arriva a essere reputata affidabile e sulla quale fondare le relazioni fino a costituire una dimensione per la quale una validità.  

Una tale condizione risulta ancora necessaria allora che al di là della sensazione percepita, ovvero in atto, si tratta di riconoscere quanto è stato e portato da una memoria, ancorché questa stessa possa configurarsi a propria volta come percezione. A mancare appare però ancora prorprio quel riferimento per il quale il tutto perviene a consapevolezza. Discorso questo che risulta più evidente allora che a risultare interessata sia l’intuizione. Allora che qualcosa venga recepito in un certo tempo e non in altro a restare è proprio essa facoltà che si riconosce non incentrata su un termine. È ancora essa a collegare gli elementi richiamati per porre in essere quanto non appare presentarsi semplicemente ma necessita di sforzo per essere portato alla luce. Perché tanto non è stato prima intuito? Aristotele a questo punto si vede costretto ad ammettere un intelletto attivo accanto a quello passivo non pervenendo ad attribuire potenzialità ad esso riferimento come facoltà. Rappresenta questo un problema dalla portata enorme. Si tratta, infatti, di ricondurre quanto non è ancora a quel soggetto pensante che però non dispone ancora degli elementi sui quali applicare esso pensiero. Solo in tali termini quanto considerato non in essere può essere riportato all’immanenza e però data da un soggetto e non da un essere che possa presentarsi di fronte. Su quello risulterebbe fondata ora essa realtà, fatto questo che rappresenterà una conquista dell’età moderna con la dimensione che arriverà a dispiegarsi su esso soggetto. Proprio la non risoluzione di quanto di fronte ritenuto reale e esso intelletto conduce a considerare una potenza e un atto. A non risultare spiegato è comunque il passaggio nell’atto stesso di esprimersi, fatto questo che rappresenterebbe un corrispettivo della problematica legata al concetto di causa.

Lezione del prof. Addona riportata da Francesco D'Andrea, I C.

TRE TIPI DI ANIME
Aristotele era convinto che ci sono tre anime: vegetativa, quella che fa muovere e fa vegetare tutti gli alberi e le piante le quali vivono, ma vegetano perché non sentono né intelligono; sensitiva, quella che Aristotele attribuisce a tutti gli animali che sentono; la funzione intellettiva che è propria dell’uomo ed è l’anima razionale. L’uomo ha tutte e tre le anime, perché vegeta, sente e ragiona.

                                                                                                                                                    -Francesco D'Andrea, I C.

LA DIALETTICA

Il discorso che arriva a riguardare il passaggio da un enunciato ad un altro si presenta nella sua più che problematicità proprio per ciò che attiene a un tale transito. Mentre per Platone una conoscenza sulla dialettica incentrata interessava ciascuna idea non facendosi leva che su ciascuna di queste senza che a necessitare fosse alcunché di diverso ossia di sensibile così che a derivarne fosse la conoscenza per eccellenza, per Aristotele la dialettica è ritenuta l’arte di produrre discorsi organizzati per ottenere effetti. A essere immesso è un non vero che risulta corrispettivo di quello che, sotto altro versante, si presenta quale un errore. Si tratta, dunque, di inserimenti volti ad ingannare. Il filosofo che si indirizza a fare emergere quelli che possono essere considerati trucchi deve cimentarsi in una tale ricerca fino a comprendere, oltre che a produrre a scopo teoretico, i ragionamenti ingannevoli. Sarà Hegel che considererà la dialettica quale passaggio oppositivo posto in essere dalla ragione rappresentante propriamente la realtà.

Lezione riportata da Francesco D'Andrea, I C.