mercoledì 9 dicembre 2020

A proposito di Romanzi!


Molto dell'individualismo contemporaneo si trova a essere potenziato, se non prodotto in larga parte, da tanti romanzi, nei quali vi è un qualcosa di effettivo che di quello risulta corrispettivo. Tali proposte, pur muovendo da una sensibilità del protagonista al quale il lettore si associa e partecipando alle vicende a questo accadute, giungono a presentare l'antagonista/gli antagonisti, come diversi e cattivi, ai quali non solo bisogna resistere, ma anche prepararsi per muovere loro guerra. Una volta individuato il “nemico”, infatti, il protagonista pensa di essere il giustiziere impersonando il giusto per eccellenza, ma di fatto, crea una barriera tra lui e l'altro. Essendo stato prodotto un tale spartiacque, ne consegue che a prendere corpo è quella diversità che arriva ad essere configurata da coloro che stanno dall’altra parte del muro che è stato eretto e proprio per tanto non accettata. Proprio una siffatta mentalità appare collocarsi dopo che sono stati dimenticati, ammesso che siano stati un tempo considerati, termini dai quali sembrava che legittimamente dovesse emergere quella valutazione derivante da un'impostazione personale. È questa, dopo che è divenuta da particolare assoluta a prendere il posto di quella intersoggettiva. Proprio per questa, dunque, la visuale deve essere ripresa, non restando fissata solo su taluni fattori oscurando altri elementi. Una persona che aspiri a diventare soggetto e per una ragione e una sensibilità generale riconosciuta è quella dunque, che si propone al di là di quella visuale di parte.

A fare la differenza è proprio l'indagine filosofica, ovvero l’applicazione di quella critica, che non si ferma a recepire restando ancorata ad un solo punto di vista. Da considerare è, altresì, la non compenetrazione e la non riconduzione di quanto velocemente e superficialmente prospettato che arriva così ad occupare quella che possiamo anche ritenere una psiche. Proprio in una siffatta impostazione si annidano quegli errori che passano come effettività, perché non controllati. Se non si riescono a rilevare taluni errori nascosti o anche volutamente camuffati, questi verranno assimilati, giungendo a formare la personalità, inconsapevolmente, e quindi in maniera errata. Si tratta, dunque, di saper leggere quanto proposto. In caso contrario, è meglio non bere ad una tale fonte. Allora che avvelenata o non salubre all'origine anziché dissetare si rivela dannosa fino a potere risultare esiziale. Meglio non sapere leggere che non sapere tradurre. Un tale passaggio arriva, comunque, ad essere superato dai messaggi su larga scala che non richiedono nemmeno l’acquisizione di un codice scritto. Un tale discorso rappresenta il corrispettivo potenziato di una erudizione. Per questa, infatti, a essere ritenuti sono fatti stimati rappresentativi di una realtà non da indagare poiché non alcunché è stimato potere essere al di là di quanto meccanicamente immagazzinato. Viene, anche in questo caso, fatto proprio tutto quello che non è stato valutato. Ove infatti, non si risalisse ai termini della proposta, questi risulterebbero semplicemente assunti, producendo i propri deleteri effetti, non emergendo, infatti, nella loro provenienza e, dunque, nella loro delineazione così che una validità possa emergere fino ad ulteriore prova contraria. Emblematico al riguardo si configura un esempio rappresentato da un’autrice che presentando un suo romanzo ambientato in Germania la cui protagonista era una operaia italiana che veniva puntualmente rimproverata in modo pesante e con espressioni offensive da una che svolgeva mansioni di controllo trova ad un certo punto la forza per riscattarsi essendosi appropriata di una piccola parte di esso codice linguistico a lei non noto e che pertanto la faceva sentire ancorr più emarginata. Fatto è che dopo numerosi richiami uno le fu sbattuto addosso una mattina in cui arriva in ritardo al lavoro per essere scesa dall’autobus ed essere caduta su un mucchio di neve ed essendosi, così come dichiarato inzuppata d’acqua. Il pubblico a questo punto non può che stare dalla parte della “poverina” la quale in quelle condizioni doveva sentirsi dire ancora una volta, di portare avanti azioni poco simpatiche su una parte del corpo di quella che non ripeto e perché cito a memoria e per il fatto di aver trovato già a suo tempo volgare. Tanto non vuole rappresentare un perbenismo poiché quanto accade sia in quella che è ritenuta una natura che in una società deve essere, come tale, rilevato. Se una tale espressione non può che farci prendere le difese della offesa pure non si può non considerare che colei che rimproverava pure arrivava puntuale sul posto di lavoro. I numerosi ritardi della protagonista appaiono così risultare tralasciati. Proprio tali omissioni arrivano a dare la differenza tra una cultura critica, dalla filosofia e da una logica portata, e un bere a sazietà fino a diventare secchioni. Ai miei alunni tra gli argomenti di educazione civica è affrontato il ritardo. Ove non fosse possibile convenire all’orario stabilito a perdere una parte di lezione sarebbero gli alunni non presenti. Allora che il professore aspettasse a perderci sarebbero gli alunni puntuali in aula che vedrebbero dispiegare un tempo passato inutilmente. Ancora più emblematico il caso dei viaggi di istruzione. Alcuni alunni che procedessero puntualmente nei loro comodi avrebbero fatto alzare inutilmente tutti gli altri seduti negli autobus ad aspettare. Non si tratta di casi derivanti da forza maggiore e rappresentanti eventi eccezionali per i quali a valere è un discorso che tanto prende in considerazione poiché all’uomo non si richiede di essere una macchina o di potere comandare a tutte le circostanze ma solo di fare tutto quanto possibile considerando gli altri soggetti come o ancor più del proprio se stesso.     

Fare critica, dunque, non solo appare altrettanto importante che documentarsi ma addirittura risulta il lavoro primario da portare avanti. Nel caso in cui non si procedesse ad una individuazione valutata, si resterebbe sotto la notizia con il danno che deriva dalla produzione artefatta, soprattutto, per ottenere effetti o anche ove tanto non si desse i risultati si troverebbero a dipendere da proposte già all’origine non filtrate o di parte perché molto limitato risulta l’’angolo di osservazione benché per questo ad emergere siano quelle sfaccettature che spesso allettano perché si scopre di rientrare in un mondo al quale in precedenza non era stato dato spazio.


Il pensiero libero.

Ad un’analisi condotta su alcune esplicazioni sembrerebbe che il pensiero, possa essere distinto in libero e non-libero. Ammesso che un tale rilievo possa risultare effettivo non possiamo non chiederci in cosa consistano le operazioni portate avanti con quello che noi chiamiamo pensiero. A questo proposito è il caso di richiamare quanto rilevato da Mauro Maldonato il quale, nel suo lavoro Quando decidiamo siamo attori consapevoli o macchine biologiche? Giunti editore, si pone il problema che investe in pieno esso pensiero. Non sappiamo infatti a cosa approderà. Si tratta di un’elaborazione in corso che fa leva su elementi noti per approdare a termini non noti. È questa quell’intelligenza che appare non poter essere sostituita da quella artificiale come Nino B. Cocchiarella ha fatto, emblematicamente, emergere in un suo lavoro a riguardo. Proprio quel quid appare rappresentare esso pensiero come attività dalla quale si trovano a derivare sistemi quali che siano. A riguardo si rinvia anche al mio lavoro Conoscenza e ragione Edimedia. Recuperato, quando non assunto, il pensiero in siffatti termini abbiamo ancora la necessità di definire che cosa può essere considerato libero e cosa no, fatto questo che rimette in discussione quanto già ritenuto.

Di norma, si ritiene libero ciò che non è vincolato. Eppure senza condizioni, ovvero in assenza di relazioni, come che arrivino a dispiegarsi, sembrerebbe che non alcunché possa emergere. La stessa libertà risulta tale solo allora che può rendere ‘’ragione di se stessa’’, quando non semplicemente connotarsi come lo sganciarsi da qualcosa, non risultando, appunto a questo vincolato colui che agisce. Valgano, tuttavia, per la considerazione di essa libertà almeno le riflessioni di Kant e che chi scrive ha elaborato, specificamente, nel lavoro La determinazione sociale dell’individuo, Edimedia.

Il pensiero, dunque, anche allora che non risulta ricalchi da quello di altri e, in primo luogo allorquando da costoro non manomesso, non può non incardinarsi su quegli elementi dai quali il sistema arriva, consapevolmente, a essere sostenuto. Non si tratta, dunque, di assumere un vero, portato da pensieri indotti, né da immagini e nemmeno da idee che siano viste appartenerci magari da sempre. Queste stesse non possono rappresentare il nostro essere ovvero l’essere peculiare dell’uomo che perviene a riconoscersi e a posizionarsi per esso pensiero nel momento stesso che questo si dispiega per quella universalità, fatto questo che significa che in questa possa rientrare ogni elemento che non lo contraddica, anzi venga a sostenerlo in quello che, così come generalità, arriva a porre in essere: quanto non razionalmente sostenibile, infatti, il pensiero rigetta. Noi sappiamo, dunque, di essere per ciò che non può essere contraddetto o, in positivo, per quanto può sembrare più vero, per dirla con Socrate, o per quello che solo può risultare dopo che tutto è stato messo in dubbio, fatto questo che ha rappresentato la grande conquista di Cartesio che ha dato avvio alla moderna filosofia.

Volendo procedere oltre nel concreto, fatto questo che sta ad indicare che le operazioni filosofiche non rappresentano un girovagare nel fatuo quando non nel nulla, come da taluni magari ancora ritenuto, ma proprio il tentativo di fare emergere quanto interessa l’esistente pensante con i problemi che lo investono, notiamo che per avere un pensiero libero appare necessario non solo spogliarsi degli ‘’errori dell’intelletto’’, emblematico, al riguardo, risulta il contributo di Bacone, anche a costo di mettere in dubbio persino l’esistenza ontologica del mondo e di se stessi, valgano per tanto le moderne concezioni e affidarsi al coraggio di pensare e di riferire gli elementi emersi: “Sapere aude!”, cioè di spezzare le catene della mente per andare oltre, ma soprattutto per trovare con il pensiero gli altri e quanto questi portano con il proprio pensiero. Se era questo il motto dell’illuminismo, grazie al quale veniva celebrata l’indipendenza, tradotta anche in campo filosofico, che accantonerà il dogmatismo e il nozionismo medievale che impedivano il progredire della cultura e soprattutto del pensiero umano, certo non possiamo non tendere a focalizzare quei termini portanti, solo per i quali appare possibile, se non trovare la verità, quantomeno incontrarsi in un’umanità che rappresenta l’approdo ultimo al quale una conoscenza tende.

Esso pensiero sembrerebbe riconoscersi come attività intellettiva che si applica su termini e riferimenti e che però si rileva non esaurirsi in tanto poiché, indietreggiando, risulta possibile a esso cogliersi in quel suo mostrarsi così come attività che non operando ancora su alcunché aveva già portato Kant a ritenerlo puro. Esso è consapevole di potere dispiegarsi dunque al di là degli stessi elementi che relaziona. Un tale configurarsi sembrerebbe portare con sé una libertà che tuttavia per esprimersi necessita di termini sui quali essere riconosciuta applicata. Appare trattarsi propriamente di essa attività che riesce a distinguersi da quanto, ancora per essa, pensato e nei termini portanti ovvero per un sistema scientifico posto in essere o per accostamenti empirici, in una siffatta modalità rilevati, oltre che per quanto resta dopo le stesse operazioni astrattive al di là delle quali si pone ancora esso pensiero per cercare ulteriormente quanto possa apparire e partecipare del discorso in essere. L’argomento è stato affrontato in Giuseppe Addona Conoscenza e ragione Edimedia liberamente consultabile sul sito dell’autore.

È proprio la filosofia, infatti, che come ricerca del fondamento posta in essere da esso pensiero che potrà fornire quelle condizioni che liberamente si concretizzano sulle quali costruire e ritrovarsi quindi con gli altri ancorché in un sistema aperto. Da questo momento in poi potrà prendere corpo quel pensiero libero che criticamente si spinge innanzi senza lasciare dietro di sé il vuoto ancorché alla luce di quanto emerge possa risultare modificato parte di quanto fino al momento ritenuto. A fare da base è tuttavia ancora quell’attività per la quale il soggetto riconosce se stesso ed è dagli altri riconosciuto nella stessa dinamicità degli eventi che sono venuti a dispiegarsi e però non al punto che il tutto sia da rifondare poiché a fare da base è ancora essa attività che non può essere consumata per quanto giunge a rappresentare in quella sua universalità aperta. Per questa, infatti, continuamente può essere sussunto altro senza che a scomparire sia essa come tale, rappresentando, appunto, la condizione dei vari recepire e dei termini conoscitivi approntati. Nemmeno per questi, ciascuna volta, risulta fissata poiché consapevole che altro e diverso possa ancora dispiegarsi, fatto questo che aveva portato già Socrate a ritenere di dovere continuamente cercare essa verità e al punto che non alcunché potesse essere affidato allo scritto, al quale non è dato di esprimere quell’altro così come emergente da essa indagine. Una tale attività si riconosce e si propone comunque come ragione in quella universalità aperta con i termini che la identificano nelle varie configurazioni che va a produrre. Essa, non scissa da queste, pure non si esaurisce in queste e si dispiega nei termini comuni a quegli esseri che, razionali, similmente quella esprimono a cominciare dall’identità da ricostruire sulla quale risulta incentrata l’intera logica, di essa propriamente e del soggetto corrispettiva ancorché nemmeno questa da ritenersi immobile e però sostenuta ancora da essa attività, la quale si dispone in essa universalità sia teoretica che pratica a livello, questa, soggettivo esprimente quella morale categorica e formale da Kant ritracciata. L’analisi del mondo esterno non risulta, altresì, scissa da quel ‘’conosci te stesso’’ che da Socrate in poi tanta strada avrebbe dovuto percorrere senza alquante o molte interruzioni da parte di chi si è presentato e ancora si dispone con la propria verità infusa espressa in quell’individualismo destinato a venire in contrasto con altri. Se le esperienze dell’esistente sono da mantenere, così come costitutive di una vita vissuta, pure non possono non essere integrate da quella riflessione e da quei confronti per i quali si può pervenire a quel discorso più ampio che all’orizzonte tende a configurarsi come universalità nella quale incontrare gli altri e vedersi nello stesso tempo riconosciute le proprie produzioni che sono viste reggere a quel sistema che possiamo ritenere umano.  Proprio quanto risultante da essa attività razionale ovverosia da esso pensiero che elabora e riconduce arriva a legittimare una stessa esistenza che non può, alla luce di essa considerazione universale, pretendere di restare semplicemente tale ovvero di continuare a produrre effetti da particolarità derivanti. A dispiegarsi, in questo caso sarebbero solo individualità contro o anche associate per una parte di un percorso che però non potrebbero pretendere di evitare l’urto con altre. Risultati si troverebbero a discendere da una commistione non universalmente legittimante. Un pensiero libero, dunque, si trova, nel caso che riguarda l’uomo con un suo essere, a fare leva su essa universalità fondante e nel caso che a risultare interessati siano i termini che giunge a percepire come esterni esso si riconosce rispetto a ciò che arriva a relazionare facendo leva su termini recepiti e che arrivano a fare da base senza tuttavia restare in essi conchiuso. Proprio per tanto arriva a riconoscere una sua libertà. Esso, che scientificamente non può che procedere sui termini che una tale conoscenza caratterizzano, pure riesce a trovare uno spazio al di là di tanto stesso e che pure è pervenuto a disporre.  

Una libertà posta in essere al di là di tanto può solo rappresentare una fuoriuscita incentrata su sensazioni ovvero su quanto spingendo da un lato arriva a essere sostituito da quanto magari maggiormente aggradi conducendo a quella non dimensione nella quale a darsi non può essere un soggetto poiché un riconoscimento può essere prodotto solo in negativo per quanto arriva a essere superato e in positivo per quanto comunque perviene a dispiegarsi senza possibilità di potere essere compreso.  Un qualcosa di non molto diverso accadde alle varie libertà che storicamente si sono prodotte e, quindi, incentrate su termini portati da una società che non era pervenuta a fondarla perché non corrispettiva di quel pensiero dispiegantesi in essi termini universali. Si è trattato così dii sostituzioni di termini dei quali alquanti avvertivano il gravame con quanto reputato potere appagare e però ancora fattori emergenti in essi termini particolari.

Proprio di fronte a quella che può essere ritenuta, di volta in volta, una degenerazione di quella libertà, che tale non risultava nella sua universalità e fondante, si era elevata quella stessa dall’illuminismo invocata e in parte conquistata e che però non era pervenuta a cogliere quel fondamento che troverà con Kant. La grande operazione portata avanti da questo filosofo non sembra tuttavia essere bastata poiché a continuare da parte di tanti è, da un lato, una ignoranza al riguardo e, dall’altro, a spingere sono ancora esse motivazioni esistenziali che trovano il loro coronamento in un individualismo nonché di massa. Si tratta di interrogarsi liberamente ovvero senza muovere da posizionamenti ad un Io rispondenti, quando non addirittura ad impulsi vari e varianti al punto che dalla considerazione di esso soggetto possa procedere poi quel pensiero logicamente e scientificamente vincolato sui termini, questa volta, universali, posti a fondamento. Questo arriva ad essere espresso da quella libertà primaria da esso pensiero posta in essere costitutiva di quel soggetto che insieme agli altri possa proiettare al di là di quel in quel vicolo cieco ancorché per alcuni tratti appagante nonché magari arricchito o forse solo gonfiato con tanti elementi derivanti da un’acquisizione libresca o soprattutto dagli invadenti e non valutati mezzi di comunicazione di massa.

Libertà, dunque, non come un distaccarsi da tutto ciò che non arriva a piacere, poiché tanto è visto rispondere, di volta in volta, a sensazioni particolari, al di là delle quali a dispiegarsi, spesso se non sempre, è anche un niente, e che pure è vista rappresentare quella indipendenza di spirito alla quale credono di partecipare o che addirittura reputano di produrre coloro che altro non fanno che proiettare quel proprio sé empirico o particolare che tende a calpestare chiunque incontri sulla propria strada, fermo restante che da questi stessi ci si aspetti quella legittimazione della quale pure si avverte il bisogno.

Il bruto esiste ancora oggi? Come attualizzare la morale di Kant.

Analizzando il seguente passo di Kant, riguardante la legge morale, all'interno della Critica della ragione pura pratica: “La prima veduta, [il cielo stellato] di un insieme innumerabile di mondi, annienta, per così dire, la mia importanza di “creatura animale”, che dovrà restituire la materia di cui è fatta al pianeta (un semplice punto nell'universo), dopo essere stata dotata per breve tempo (non si sa come) di forza vitale. La seconda, [la legge morale] al contrario, innalza infinitamente il mio valore, come valore di una “intelligenza”, in grazia della mia personalità, in cui la legge morale mi rivela una vita indipendente dall'animalità, e perfino dall'intero mondo sensibile: almeno per quel che si può desumere dalla destinazione finale della mia esistenza in virtù di questa legge; la quale destinazione non è limitata alle condizioni e ai confini di questa vita, ma va all'infinito.”, potremmo pervenire ad una definizione di “nobile”, ricavabile, per converso, altresì, da quella di “bruto”, “canaglia”, termini questi che vanno ben oltre quelli di uomo rozzo, limitato nei modi, che non ha il senso dell'altro, magari individualista, che tende ad essere violento ed aggressivo e, relazionandosi con una persona, non ne percepisce l’essere più peculiare costituito propriamente dal rappresentare una identità universale e di fronte. 

Il “nobile”, dunque, da intendersi come un soggetto non limitato in alcun modo, il quale, per usare ancora le parole di Kant, si eleva INFINITAMENTE, che si distingue dagli animali per la ragione (che un non filosofo potrebbe definire in modo ancora non adeguato come intelligenza) e riesce non solo a contenere ma a far soggiacere i propri istinti, sacrificando quindi quelle che arrivano a concretizzarsi come richieste che potrebbero portare ad un proprio e particolare utile. Il bruto, ovverosia l’individualista, invece non riesce ad elevarsi ad un piano più generale nel quale l’altro possa essere ritrovato ed agisce mosso unicamente da passioni ed impulsi soprattutto primordiali, i quali possono spingere anche alla violenza più marcata. Da considerare non estranei a tanto quegli stessi che non si proiettano contro per ottenere e però solo per un timore o anche per motivazioni subentrate fino a costituire una psiche che alla prima occorrenza può dispiegarsi diversamente per fattori intervenuti. Non diverso, dunque, il discorso che si configura allora che a fare il suo ingresso sia una paura, la quale giunge sia a trattenere da azioni che possano mettere a rischio la vita di un tale esistente che a prendere il posto di quella generalità che contraddistingue il soggetto che si dispiega rispetto ai particolarismi utilitaristici. Un siffatto comportamento difensivo si configura, infatti, sulla stessa linea benché arrivi a svolgersi in una direzione che possiamo ritenere opposta a quella additata dalla volontà che insegue interessi in positivo. Allora, comunque, che essa preoccupazione invada l’esistente costui tende a conservarsi sacrificando ogni cosa che venga a prospettarsi di fronte. L’azione eroica invece, che possiamo ritenere quale corrispettiva di una “nobiltà”, sacrifica appunto quanto l’altra pone in essere a tutela ovverosia a conservazione di esso esistente. 

Il non posizionarsi, quindi, esclusivamente da uomo-animale proietta il soggetto verso quel comportamento che può essere detto sia eroico che nobile. Chi si sente investito da una tale spinta universale, per usare ancora la scoperta kantiana, si sforza di superare quella paura per la quale si abbasserebbe da soggetto ad esistente particolare. Sia in pace dunque che allora che, purtroppo, si trovavano in guerra o in altre situazioni pericolose coloro che avvertivano quell’imperativo categorico kantiano, non arrivavano ad anteporre la paura a ciò che ritenevano da doversi esprimere in quanto valido universalmente. Si trattava di muoversi quali soggetti o di annullarsi propriamente in quanto tali.

Con quanto espresso in questo passo, dunque, Kant arriva ad individuare scientificamente il percorso possibile ad un soggetto che per secoli era stato, ancorché potentemente posto in essere da alquanti, non individuato scientificamente ma ritenuto attenere ad una nobiltà. L’importanza di essa critica emerge, non fosse che solo per il discorso da noi affrontato, dal fatto che è risultato dimostrato scientificamente ovvero in un sistema ancorato su una effettività da una universalità costituita quanto pure da tanti espresso ancorché attribuendo tali azioni ad una eroicità denotativa di una nobiltà di animo quando non rispondente ad uno status dato dalla discendenza per la quale gli appartenenti ad alcune famiglie erano ritenuti “diversi” da quelli che si comportavano solo in funzione della propria esistenza, meritandosi, sicuramente esageratamente, l’appellativo di “canaglia”. Quei cani infatti che, abbandonati, arrivano a formare un gruppo, si tuffano sulla preda sapendo che da tanto dipende la loro sopravvivenza non disponendo di altro e avendo digiunato per giorni.

 Da quanto emerso appare possibile constatare l’importanza di uno studio sulla morale e di quanto a questa attinente così come prassi. La riconduzione di una tale prassi arriva a recuperare quanto alcuni sono andati, via via, ad appropriarsi fino a posizionarsi quali elementi derivanti da tali fatti spesso enucleati da una stessa storicità e, comunque, additati da tutti coloro che si sono trovati a respirare una tale cultura. Si tratta, dunque, di individuare i termini portanti di esse azioni quali che siano, le quali, in caso diverso, possono dipendere più o meno semplicemente da istinti o conformazioni ovvero da una mentalità anche meccanicamente venuta a costituirsi con quanto di non valido un operato non valutato può portare con sé.

Muoviamo da un esempio: Nel caso in cui una persona si trovasse in pericolo, il “bruto” preso in considerazione non si accingerebbe a salvarla dando la precedenza alla propria vita o anche solo alle proprie comodità. Diverso il discorso che riguarda colui che avverte la spinta che caratterizza il dovere e che si proietta in quell’universalità. Per questa, prima ancora di ogni considerazione di ordine teoretico, quale potrebbe risultare il sacrificio di sé pur di salvare la propria famiglia o più specificamente i figli così che per la vita di questi, nella quale reputi in parte almeno di continuare, sacrifichi la propria, un tale soggetto supera esso esistente, limitato e “minimale” ovvero si presenta al di là di questo come soggetto che si riconosce in essa universalità di fronte alla quale, a cessare è essa particolarità dall’esistente rappresentata. Proprio tanto arriva a prendere corpo rispetto allo stesso sistema per il quale un antico nobile anteponeva la dignità a quel proprio sé da intendersi anche non limitato al solo empirico corrispettivo di una esistenza.

La morale, al di là, dunque, delle concretizzazioni storicamente assunte passa anche o soprattutto attraverso il sacrificio di quanto potrebbe risultare giovevole al singolo. Essa dipende dalla tensione ovverosia dallo scarto che viene a crearsi tra i propri vantaggi ai quali risulta anteposto, se non ancora l’universale, il sistema. Diversa la validità di un dono di dieci euro ad un povero da parte di un ricco o di qualcuno per il quale una tale cifra non risultasse ininfluente. A quello non deriverebbe quasi effetto alcuno diversamente che all’altro il quale dovrebbe privarsi di qualcosa. Proprio perché l’altro aliena una somma che non incide minimamente sulle sue esigenze il suo gesto, benché da apprezzare, non può essere considerato a rigore “morale”.

Possiamo, infine, ritenere di avere trovato due distinti operati: quello rispondente all’animale (biologico), ossia a un vivere in risposta ai propri stimoli o comunque, nel caso così come contemplato da Kant, un granello da “restituire nuovamente al pianeta la materia con la quale è stato formato” e l’altro quasi opposto portato dalla morale, per il quale si manifesta quell’universalità che convoglia l’uomo fino ad inserirsi nell’intero universo, non potendosi quand’anche lo volesse, considerarsi inferiore.

Cerchiamo ora di attualizzare: possiamo ritrovare ancora oggi le figure del bruto e del nobile? Affidiamo una tale riflessione ai giovani che abbiano potuto osservare fatti al riguardo sia relativamente a comportamenti di coetanei che di adulti.

Anche questo processo può essere definito cultura, al di là dello stesso recupero della realtà individuata oltre la trasfigurazione classica.

 

lezione del prof. Addona riportata da chiara De Mizio, Ic

La matematica come convinzione.

Portare avanti un discorso riguardante la matematica significa, in primo luogo, muovere dalla individuazione di esso numero che quella, primamente, rappresenta e quindi passare alla definizione dei funtori che usa, a cominciare dal più e dal suo corrispettivo opposto il meno e quindi dalla moltiplicazione e dal suo inverso dalla divisione costituito, il tutto incentrato su una identità da ricostruire data da una uguaglianza.

Alcuni ritengono che il numero sia un ente reale razionale. Se con essa quantità si intendono elementi di un mondo allora esso numero non può essere ritenuto reale. Diverso i discorso non appena a risultare interessata sia già una astrazione. Allora, invece, che reputato razionale si troverebbe ad essere posto in essere da una ragione quale un suo elemento. Benché richiamante sia una esperienza che essa ragione appare da intendersi piuttosto quale un ente convenzionale adoperato dalla comunità per esprimere un concetto intersoggettivo rappresentativo di una quantità data, appunto, da un numero che giunge, altresì, a ripetersi in una serie, dopo magari essere stato rilevato in una associazione empirica dalla quale si è poi staccato per procedere autonomamente nella significazione fornita ad esso da quello che è arrivato a configurarsi quale un sistema. La matematica è diventata scienza, possiamo, ritenere, nel momento stesso che è stata prodotta la serie muovendo dall’uno che sommato a se stesso ogni volta ha ricevuto un nome così che è stato possibile pervenire a riscontri suffragati anche dall’operazione contraria.

Si perviene in esso ambito dunque alla certezza che ciò che è identificato con quello che è detto numero tre sia equivalente a quella determinata quantità non solo così come configurata ma quale ottenibile dalla regola stessa valida in esso sistema posto in essere. Non, dunque, un qualcosa di assoluto, ché di questo nulla può dirsi, ovvero non alcuna predicazione, la quale riposa, infatti, su altro, per essere prodotta, ma un riconoscimento intersoggettivo ovvero esso qualcosa, così come quantità, che voglia anche essere stimata razionale nonché reale, ritenuto valido da alquanti e quindi per tutti gli esseri razionali non appena pervenuti a recepire quell’impianto costituito risultante tale per una comunicazione.

Esso sistema comunque non può essere assunto quale traduttivo di una natura e meno che mai di un universo. Una tale costruzione, infatti, così come pensata non può pretendere di risultare corrispettiva di un qualcosa, il quale, così come esterno, non arriva a essere conosciuto negli stessi termini. Ricordo a proposito un famoso professore di matematica di una prestigiosa università che si scandalizzava del fatto che osservazioni o, più specificamente, esperimenti non fossero interamente collocabili in leggi matematiche. A scandalizzarmi ero io e al contrario allora che alle elementari non riuscivo a concepire che la lunghezza di un tavolo potesse corrispondere esattamente ad un numero. Forse solo una magia, benché giammai richiamata, avrebbe potuto fare in modo che tanto accadesse.

Compiendo un esperimento, la scienza moderna approda ad una formula matematica per pervenire ad una disposizione rintracciabile di essi termini appunto perché misurati nonché in una relazione. Con un tale apparato ci si accinge, altresì, a recepire un procedimento. Appare impossibile che la realtà possa essere letta interamente con gli strumenti dalla matematica approntati. La misurazione, infatti, non rappresenta altro che un sistema che si approccia ad un altro sistema nemmeno tuttavia pensabile già come tale.

Allora, altresì, che usiamo un sistema decimale non potremo che ottenere risultati da questo dipendenti, ad emergere cioè non saranno quantomeno i centesimi. Nel momento che ne approntiamo uno centesimale, lasceremo fuori quanto esso non può misurare e così via. Noi non avremo, dunque, mai dati certi ed inconfutabili, perché ci sarà sempre un margine di errore e di imprecisione rappresentato da quanto resta fuori, ammesso che siamo riusciti a far rientrare l’altro. Questo infatti si dispiega ancora quale un esterno e, come tale, non conoscibile che per quanto approntato.

Logica matematica e filosofia.

Se la logica si dispiega come riconduzione all’identità, ovvero se non rappresenta altro che un riferirsi a ciò che già è ovvero che è stato stabilito e che, in ultimo, è identico a se stesso e la matematica quale riconoscimento dei rapporti di quanto dai numeri espresso, alla filosofia tocca il compito di proiettarsi oltre lo stesso sistema ciascuna volta approntato. La logica, dunque, recepisce la modalità ovvero i passaggi che riconducono al discorso dal quale si muove. Per esempio allora che si afferma: se A è maggiore di B e B è maggiore di C allora A è maggiore di C, la conclusione rientra in quell’affermazione che esprime il tutto ovvero che A è maggiore sia di B e sia di C. Dire che A è uguale a se stessa significa ritenere, in uno, che il pensiero non ha altri elementi con i quali possa percepire il contrario ovvero una diversità. Se fosse diversamente colui che pensa non saprebbe più su quali elementi fare leva.

La logica, è il caso ancora di ripeterlo, si rivela quale una riconduzione a essa identità e la matematica come riconoscimento dei rapporti tra numeri per essi funtori e che ancora all’uguaglianza riconducono.

La matematica si incentra, infatti, sui numeri che per convenzione sono stati costituiti. Il numero 1 è inteso come un elemento non scisso e rappresentante appunto solo se stesso e che associato ad un altro elemento, pensato solo sotto l’aspetto della quantità, ovverosia facendosi astrazione da tutte le qualità, è detto essere 2 per convenzione e associato ancora ad un altro che a questo punto è da considerare come un ripetersi di quel primo se stesso è detto 3 e così via per tutta la serie numerica costruita e per quanto ancora possa spingersi oltre dopo avere posto in essere un tale sistema.

Allora che ci si trovi di fronte ad una operazione quale 5 = 3 + 2, quando si voglia sapere, su esse basi assunte su cui si dà per esso sistema che la somma di 1 + 1 dà il due e sommato ad un altro elemento dà il tre e sommato ancora ad un altro elemento il quattro a prescindere da cosa l’elemento rappresenti appare evidente che il 5 è riconosciuto per la somma di tante volte essa unità ancorché espressa da parti a propria volta costituite sulla stessa unità.

Se io voglio ottenere il 2 da un 5, bisogna togliere a questo un 3. Quindi se in quella operazione di prima si ha 5 = 3 + 2, è ovvio che per ottenere il 2 occorre staccare 3 dal 5.

L’operazione, quindi, sarà 2 = 5 – 3. Proprio per tanto passando dall’altra parte dell’uguale il segno si inverte. Tanto risponde ad una logica e non va imparato meccanicamente.

Se alla filosofia, come sopra già rilevato, tocca il compito di proiettarsi oltre lo stesso impianto, pure l’operazione matematica non può non essere comunicata nei termini per i quali è posta in essere, fatto questo che arriva ad interessare lo stesso sistema per il quale emergono, in uno, riscontri e validità. In caso diverso siffatti passaggi giungono ad essere affidati ad una comprensione personale o, per lo più, al caso quando non passivamente registrati.

La filosofia va oltre ogni apparato già approntato e cerca di scoprire quello che nel sistema non è presente. Se un sistema o conoscenze quali che siano risultano indispensabili così come basi per procedere oltre, fornendo gli elementi su cui lavorare, pure si tratta di proseguire per fondare quelle stesse. Si tratta di individuare, per poi magari superare, le stesse condizioni che hanno portato a rilevazioni e a ritenzioni.

Se per riferimenti arrivano a essere prodotte predicazioni bisogna volgersi a valutarli ed eventualmente a reimpostarli.

La ricerca filosofica appare rappresentata da quel procedere volto alla individuazione facendo leva quantomeno su diversi punti di osservazione. Gli elementi emersi arrivano, altresì, ad essere reimpostati e valutati nelle ulteriori relazioni nonché sfaccettature ed aperture senza, tuttavia che tanto, possa configurare quel percorso che essa filosofia perviene continuamente a tracciare. Al di là dello stesso pensiero che è giunto alla individuazione di un discorso scientifico si presenta ancora un pensiero ponto a recepire quanto anche solo arrivi ad affiorare.

Allora che un ragionamento sembri ineccepibile è perché si ritiene di non avere aggiunto altro così come estraneo o fuorviante a quanto derivante da esse premesse. Nel momento stesso che a essere eliminato sia qualcosa di diverso ovvero l’errore a presentarsi non è niente di nuovo ma quanto solo rappresentato ossia contenuto in essa identità di base. Il discorso per le scienze si chiude intorno a quel qualcosa al di là del quale altro non si riesce a scorgere. Matematica e logica fanno, in ultimo, leva sull’uguaglianza.

Le affermazioni, per tali scienze o soprattutto per quella che Aristotele riteneva uno strumento, non riguardano qualcosa di esterno. Anche o soprattutto allora che parliamo di logica matematica non ci riferiamo se non a quanto incentrato sull’identità e non su una realtà esterna. Un qualsiasi numero risulta tale per convenzione anche se appare piuttosto consueto ritenere che un a un reale individuato come 3, possa corrispondere qualcosa di ulteriore da cui esso altresì risulterebbe derivare.

Il primo elemento per la matematica sembrerebbe essere costituito dal numero, per la logica appare evidente da subito che sia l’uguale. Siccome la matematica non si presenta scissa dalla logica, dobbiamo ritenere che fondamentale anche per essa sia l’uguale. All’uguaglianza, riconducono sia il più, che significa che si aggiunge qualcosa, e sia il meno, che indica il percorso opposto, rappresentato da una sottrazione. I due processi si muovono sulla stessa linea. Alla medesima operazione sono a propria volta riconducibili moltiplicazione e divisione che includono quello che possiamo ritenere uno spazio racchiuso dai due assi ortogonali fino ai punti designati da quanto da un numero posto a corrispettivo.  

Anziché, dunque, procedere per addizionare 10 volte un 3, si perviene a ricavare lo stesso risultato moltiplicando il 3 × 10 che diventa 30 ovvero sommando esso 10 tre volte o esso 3 dieci volte. Dati i parametri di base o si addiziona un uno (1) 30 volte o si moltiplica un 10 per 3 il numero che deriva è lo stesso.

Non diverso il discorso sempre per il sistema costituito allora che al quadrato ottenuto con ascisse e ordinata nelle rispettive quantità espresse, tolta una delle due, resta quanto rappresentato dall’altra. Nello stesso discorso rientra anche la radice quadrata. L’operazione che a questa attiene risulta inversa a quella che interessa il quadrato.

La matematica non solo opera su quanto costituito ma si spinge nel tentativo di risolvere problematiche derivanti proprio da quanto approntato e che, però, non fornisce risultati coerenti con l’applicazione dei termini usati per incrocio e parte comunque di esso sistema. Al di là di tanto si proietta per inseguire quanto altresì pure al momento non sembra chiedere una soluzione perché non parte del problema.

La stessa immissione di una potenza non sembrerebbe rispondere ad altro che a una riduzione dei passaggi fino a rispondere ad una teoreticità per la quale rientrare i vari casi particolari. Facendo uso di esse appare possibile così esprimere formule dispiegate in quella che potremmo ritenere una forma ancorché espressa su termini effettivi e in essa relazione.  

Da considerare è altresì che andando avanti con gli assunti si può solo pervenire ad un determinato punto. Per andare oltre bisogna, talvolta o spesso, rompere con gli schemi di base ancorché rappresentanti una condizione di quello che arriva a configurarsi come un superamento. Si tratta dunque, ogni volta, di spingersi oltre le stesse conoscenze alle quali si è approdati.  Se a risultare evidenti sono i vantaggi rappresentati dalle traduzioni numeriche pure queste non possono essere considerate universalmente valide. Se risulta possibile comunicare la grandezza di qualcosa, utilizzando il numero uguale per tutti coloro che hanno accettato un tale sistema di misurazione anche a distanza senza bisogno di portare con sé un corrispettivo non ulteriormente individuabile pure non altrettanto appare possibile reputare di avere trovato una chiave di lettura per ogni elemento. Con essa matematica, incentrata su parametri intersoggettivi, risulta possibile veicolare una conoscenza ancorché non in modo assoluto ma comunque tale da fornire un riscontro che risulta piuttosto evidente allora che si voglia confezionare una torta fornendo le quantità o più specificamente i termini a cominciare dal peso dei componenti per finire ad una temperatura da far raggiungere ad un forno e da un tempo di permanenza in quello. Basta pensare alle difficoltà in assenza di tali parametri così come definiti.

La filosofia, che pure non può che muovere da essa identità, arriva a pensare percorsi diversi oltre che la stessa negazione di questi. Essa, quindi, non si affida solo a quello che si presenta, ma si proietta oltre non appena minimamente richiamato. Essa riflette su quanto arriva a dispiegarsi nel tentativo di ricavare qualcosa di ulteriore, fatto questo che accade, anche se non in modo così eclatante, alle altre scienze nel momento stesso che si dispongono, alla luce di quanto intravisto e soprattutto conquistato, per negare quantomeno parte degli stessi risultati precedenti.

La scienza, quindi, sa che deve spingersi oltre non appena comprende che quel determinato qualcosa non può essere risolvibile con i sistemi in uso. Al di là dei risultati raggiunti, gli scienziati si preoccupano di produrre ulteriori soluzioni che possano risultare ancora più funzionali ovvero tali da contemplare fino a risolvere un numero crescente di casi nonché in ambiti ulteriori.

A restare di fronte alle stesse varie conquiste alle quali, di volta in volta, si perviene è ancora un pensiero pronto per affrontare sentieri non ancora abbozzati ancorché per assenza di termini non si dispieghi per elaborare.

Da un lato, dunque, il discorso arriva ad essere mantenuto così come conquista scientifica e dall’altro, infranto almeno per quella parte che risulta superata alla luce di nuovi elementi.

giovedì 5 novembre 2020

Smart working- lavoro da considerarsi intelligente?

Ad un pubblico non attento potrebbe sfuggire il valore di tale espressione. Ma qual è il suo significato effettivo per i ragazzi e non solo?

Se quello tramite internet è ritenuto intelligente, il lavoro non prodotto tramite un tale strumento deve essere considerato non intelligente; il contrario infatti. Ciò che è considerato intelligente, dunque, non può essere non intelligente. Il contrario di A è infatti (N, o ancora in simboli, ¬) non A; ¬ A.

Alla luce di tali evidenze logiche, dovremmo considerare non intelligente il lavoro svolto in genere. Fatto questo, che sfugge ad un gran numero di persone che recepisce i dati così come arrivano a essere forniti senza produrre correlazioni, ovvero senza portare avanti quelle riflessioni per le quali ad emergere possano quantomeno essere le altre facce delle medaglie proposte. Ad emergere è l’importanza delle considerazioni ovvero di quelle indagini dalle quali emergere valutazioni. Ricordo come se fosse ora una delle prime lezioni in un famoso liceo romano quando, a quegli alunni abituati a studiare in modo da non tralasciare alcunché dissi di lasciarsi lo spazio per riflettere sugli argomenti che li vedevano impegnati. Se. Parafrasando lascamente Kant, senza materiale la riflessione non ha elementi su cui procedere, senza questa quello risulterebbe un semplice “oggetto” meccanicamente recepito.  Ancora una volta emerge l’importanza della logica e della filosofia rappresentative di quell’indagine critica, baluardo almeno per il quale un messaggio occulto possa essere riconosciuto e fermato. Un sapere non può risultare avulso da una individuazione consapevole di quelli che, in caso contrario, si dispiegherebbero quali fatti assimilati quali oggettivi. Già per Aristotele esso sapere risulta tale allora che se ne conoscano le cause. Scire est per causas scire.

Tanto appare possibile rilevare anche o soprattutto allora che a risultare interessate siano interrogazioni. In un tale momento ci si pone in interazione per far emergere con un dialogo gli aspetti prodotti e quali che via via vanno a prendere corpo. Diverso ciò da un insieme di notizie raccontate magari senza essere interrotti così come pure qualcuno talvolta sembrerebbe chiede per sciorinare quanto memorizzato magari anche con sforzo.

L’importanza della filosofia da un passo di Empedocle.

Empedocle, nel suo celebre passo “Il Filosofo Venerato”, ci invita a riflettere su alcune tematiche importanti come quella della conoscenza e della cultura. Che mondo sarebbe senza? Sicuramente un mondo dove la violenza regnerebbe sovrana e dove le persone non sarebbero in grado di costruire un ambiente sociale in cui vivere pacificamente. Non conoscendo i termini, che pure intervengono nelle relazioni, le azioni si troverebbero a dipendere da essi senza possibilità di individuare i passaggi dai quali effetti.

Proprio su tanto perviene a basarsi la figura accreditata di Empedocle come sapiente dotato di qualità e prerogative che lo elevano al di sopra dei comuni mortali.

Una tale conoscenza arriva a essere ritenuta tanto alta che il mito giunge a trasfigurarla fino a considerarla attenere a divinità. Con la sua poesia filosofica quel filosofo pure si rivolge agli uomini mostrando la via che possa condurre persone già pacifiche ed ignare di malvagità e quelle ancora che coltivano opere eccellenti di governo ad approdare ad una situazione venerabile nella quale giungano a rientrare anche gli ospiti.

Queste eccellenti creature in cosa difetteranno? Semplice, non si preoccupano di trovare un principio. Al di là, dunque delle stesse attività meravigliose portate avanti bisogna volgersi a cercare quanto il tutto possa sostenere.

Empedocle, che tanto ha colto, arriva a sostenere di trovarsi ad un punto più alto degli uomini aggirandosi tra questi come un essere immortale perché interessato da una tale conoscenza. Ecco spiegato il motivo dell’apprezzamento da parte delle città: egli è portatore di conoscenza ovvero di quel pensiero per il quale a dispiegarsi è una dimensione diversa.

Il volgo che non conosce, per sopperire alla mancata conoscenza, fa affidamento ad un mondo sovrannaturale, costituito a volte da divinità ed altre da indovini reputati a questa collegati. Diverso, invece, il discorso per coloro che portano avanti una indagine filosofica. Costoro, dedicandosi criticamente ad indagare la realtà, non hanno bisogno di ciarlatani e fattucchieri.

venerdì 30 ottobre 2020

Logica, logica filosofica e filosofia.

Oggi il discorso si fa più complesso perché il professore Cocchiarella dell'Indiana University, a proposito della logica Medievale dei termini con la disputa tra realismo e nominalismo, al quale avevamo chiesto un contributo in quanto massimo esponente della logica contemporanea, ci ha invitato ad approfondire questi argomenti attraverso i suoi studi.

Il discorso iniziale verte sulla logica filosofica.

A questo punto, insieme al professore Addona, portiamo avanti le seguenti riflessioni così come quel famoso scienziato ci ha invitato a procedere.

Come già in precedenza ci chiediamo subito che cos'è logica.

Ipotizziamo di non saperlo. Sin dal ginnasio abbiamo compreso di dover ricorrere, per pervenire almeno a una prima e generica individuazione del termine, al vocabolario. Non ne disponiamo. Potremmo utilizzare internet...     

Ciascuno, in proprio si documenta sul significato di essa logica.

Proviamo a vedere però cosa viene fuori applicando il metodo che proponiamo di cui daremo delucidazioni ulteriori in seguito.

Anzitutto, se non ce lo chiedessimo cosa ne conseguirebbe?

Impareremmo meccanicamente qualcosa di cui però non siamo venuti a conoscenza!

Vogliamo chiederci con quanto materiale abbiamo appesantito il cervello finora? Meno male che dopo la scuola esso si libera resettando tutto! Allora a cosa è servita un tale tipo di scuola? Anche in questo caso una risposta a da cogliere in proprio.

Tornando al problema...

Non sapendo da dove cominciare, facciamo un esempio. (Anche questo fa parte del nostro metodo)

(A > B) e (B > C) → (A > C)

E' riconducibile tanto al famoso sillogismo:

"tutti gli uomini sono mortali,

Socrate è uomo

Socrate è mortale"

Tanto non è valido per un discorso superiore che Cocchiarella ha affrontato in uno studio "Validità della logica in filosofia" trasmesso al prof. Addona per i suoi alunni e che è presente in un libro dal titolo "Filosofia in un percorso", liberamente consultabile su internet.

Infatti se proviamo a dire:

"Gli apostoli sono dodici,

Pietro è un apostolo

Pietro è un dodici" ...si capisce che non funziona!

Quando si tratta di logica il significato è recuperato all'interno delle premesse oltre che dai passaggi posti in essere. Si tratta di cercare il significato degli enunciati e la loro valenza, fatto questo che equivale, in uno, a dire individuare l’ambito di validità e la portata dalla quale sono sostenute le stesse predicazioni.

Allora che ad intervenire è la 'filosofia' andiamo a cercare la valenza di essa indagine che caratterizza siffatta disciplina. Si tratta di cercare, ancora una volta, i fondamenti e quanto su questi imperniato.

Un tale problema Aristotele aveva già individuato, allora che considerava la costruzione delle premesse alle quale pure si accingeva.

Sistema aperto o chiuso?

Leggendo un passo del sofista Gorgia, “Le ragioni dell’innocenza di Elena”, ci siamo chiesti se costui si stia rivolgendo a un uditore medio, a un possibile discepolo, a entrambi o a nessuno dei due.

Sembrerebbe che la sua proposta debba interessare un possibile discepolo tenuto conto che colui che si esprime si preoccupa di fornire indicazioni. Eppure sembrerebbe non rivolgersi a tutti coloro ai quali pure è indirizzato il suo messaggi. Arriva a svelare la sua arte?

Il problema che si configura deriva dall’affermazione considerata all’interno o all’esterno di un sistema. Si tratta di cogliere cioè se il messaggio giunge a essere rivolto e nella sua interezza a tutti o resta esterno così che possa produrre i propri effetti persuasori. In tal caso a essere comunicato è un qualcosa dal quale resta fuori esso propositore.

Dobbiamo vedere, altresì, se colui che parla si riferisce a qualcuno, spiegandogli qualcosa che altri non devono sapere, oppure se parla direttamente, per una parte almeno, a colui cui è indirizzato l’insegnamento o a coloro ai quali vuole dimostrare le potenzialità di un discorso che egli arriva a gestire.

Se si rivolge a loro, spiega la sua arte e questi vengono a conoscenza di come lui organizza e intreccia le situazioni.   Sembrerebbe, quindi, andare in contraddizione, perché da una parte vuole convincere e dall’altra spiegare le mosse con le quali si accinge ad affondare il colpo come accade a coloro che mettono su trucchi per produrre l’effetto voluto, per scioccare gli uditori anche se, nel primo caso, finirebbe con lo spiegare loro il trucco.

 

giovedì 29 ottobre 2020

LA REMINISCENZA COME POSTULATO DELL’IMMORTALITA’ DELL’ ANIMA

Un sabato mattina nella mia classe, la I B del Liceo Classico con il nostro colendissimo (stimabilissima persona da coltivare) Prof. Giuseppe Addona mentre piegavamo la teoria delle idee di Platone e l’immortalità dell’anima ci siamo soffermati su un concetto a noi non noto: la REMINISCENZA POSTULA (l’immortalità dell’anima).

 

A questo punto dalla spiegazione del prof abbiamo appreso che per trarre il significato da una parola dobbiamo analizzare la parola stessa; in questo caso specifico, POSTULA deriva, come sembrerebbe, da POST = DOPO con la restante parte che potrebbe ben rappresentare ciò che si è dispiegato. Dobbiamo quindi chiederci, in ogni caso: “il dopo di che” che nel caso di Platone è costituito dalla vita terrena e relativo ritorno dopo il passaggio nell’altro mondo ovvero in quello non sensibile. REMINISCENZA, dopo il passaggio, dunque, così come un RICORDARE.

 

POSTULATO in termini filosofici indica un presupposto al quale ci si rifà per le conseguenze.

L’ immortalità deve essere così una conseguenza della reminiscenza. Ove non risultasse immortale non potrebbe partecipare dell’altro mondo e continuare, quindi, ad esprimersi in quella che arriva a essere ritenuta una rinascita, da cui appunto una reminiscenza.

La reminiscenza è un risveglio della memoria, un ridestarsi di un sapere già presente nella nostra anima, ma che era stato dimenticato al momento della nostra nascita ed era per ciò solo latente; oggi diremmo inconscio.

Per Platone conoscere significa dunque ricordare. La conoscenza non deriva dall’ esperienza ancorché questa possa quella ridestare.

Platone reputa che la nostra anima sia immortale ed eterna ed avere partecipato al mondo delle idee prima della nostra nascita ed ancora aspira a tornare a quel regno dopo la morte. Come, in caso diverso, spiegare l’idea di perfezione presente nell’uomo e che non arriva a trovare corrispettivo in ambito alcuno interessante una esperienza? Risultando questo filosofo ancorato sulla posizione parmenidea per la quale al pensiero corrisponde l’essere e a questo il pensiero, tenuto conto che essa idea di perfezione è nella mente deve necessariamente essere, proprio perché pensata. Non risultando in questo mondo, sembrerebbe questa la conclusione, non può che risultare in un altro che, non sensibile, è da ritenere soprasensibile, iperuranio o comunque indicato diverso da quello terreno.

Il mondo delle idee è stimato essere quel mondo oltre la volta celeste che è sempre esistito in cui vi sono le idee immutabili e perfette raggiungibili solo dall’ intelletto e pienamente allora che liberato dal corpo che per questo motivo arriva a essere ritenuto una prigione.

 

Il professore ci ha invitati a scrivere articoli come questo da riportare nel blog per la nostra crescita culturale e, per confrontarci con altri sulle conoscenze alle quali siamo pervenuti.

lunedì 8 giugno 2020

Alcune riflessioni sul Corona Virus

Questo lungo periodo di "reclusione" ci ha spesso costretti a riflettere sulla vita e sulle leggi della natura, che è sembrata essere tanto crudele nei confronti degli uomini. Si sta vivendo un momento epocale, ma, In un certo qual modo, la crisi non ha colto tutti di sorpresa e da tanto si temeva che si arrivasse, prima o poi, a una catastrofe. Che abitassimo un mondo malato, fondato su meccanismi patologici, era chiaro da tempo, e da tempo ci si poteva aspettare un sussulto della natura. Gli oltraggi, infatti, che l’uomo le reca da decenni hanno agevolato il propagarsi del virus. La Terra sta lanciando un ultimatum, sta urlando a vivissima voce di tornare a pensare in grande, di abbracciare il mondo con uno sguardo a volo d’uccello che spazzi via le vedute anguste dell’economia e della falsa crescita, ci sta chiedendo di recuperare un pensiero universale, un senso etico da troppo tempo perduto (l’emergenza ha messo a nudo la disarmante mediocrità della politica!), di cancellare ogni forma d’individualismo, a livello umano e statale. Un’epidemia ci sta ricordando che tutto è interconnesso, che il malessere della Terra si ripercuote sui popoli e sulle società, acuendo le disuguaglianze. Sta a noi raccogliere l’invito e decidere se invertire oppure no la rotta e far sì che l'attuale situazione, si trasformi in un punto di svolta.

Chiara Grasso

giovedì 4 giugno 2020

Dove portano le bugie?

Vi siete mai chiesti dove possano portare le bugie? Facciamo una prova partendo da quello che può essere considerato il caso più emblematico che interessa soprattutto gli adolescenti. Se qualcuno pur di mettersi insieme alla persona che lo attrae si proponesse sciorinando caratteristiche che non gli appartengono, falsificando dunque la sua personalità, potrebbe, magari, con un tale o con altri artifici raggiungere il suo scopo. La ragazza, quindi, si troverebbe ad aver investito su qualcuno che non corrisponde a colui che si è manifestato. Potrebbe tuttavia costui che vede esauditi i propri desideri ritenersi persona identificata, ovvero soggetto? Non appena tentasse un riconoscimento, si rileverebbe sdoppiato. Qualora allargasse la considerazione, non potrebbe non riconoscere l'impossibilità di espressione alcuna in essa società nella quale, pure, per il resto, si trova ad operare. Su cosa, infatti, incentrare quel riconoscimento sul quale quella stessa può risultare fondata? Per quanto attiene al rapporto instaurato, non potrebbe non tener conto, altresì, che le attenzioni non risultano rivolte a lui, ma al personaggio che si è impegnato a tratteggiare e, quindi, a commerciare. La relazione, tra l'altro, si infrangerebbe non appena i termini nascosti venissero alla luce. Emblematiche sono le frasi "tu non sei quello che avevo conosciuto" ed altre similari. Avendo annullato sé stesso, non resterebbe a quella maschera che tuffarsi in un altro rapporto, altrettanto falsificante per poi restare comunque sola, ammesso che abbia il tempo per constatarlo. Avendo ingannato altri, ha disintegrato il suo stesso essere.

L'argomento è affrontato da Giuseppe Addona in "Conoscenza e ragione" Edimedia.

giovedì 28 maggio 2020

Intervista a Professore Giuseppe Addona

Il giorno 17 febbraio 2020 gli alunni del Liceo Classico Pietro Giannone, classe IID, hanno deciso di condurre un'intervista al loro noto professore di filosofia Giuseppe Addona, autore di molti saggi filosofici tra i quali, per citarne alcuni, "La determinazione sociale dell'individuo" del 2014 , o il più recente del 2017 " Prassi e ragione " pubblicato nel 2010. Oggi il filosofo è in contatto con moltissimi esponenti della cultura italiana ad internazionale quali Nino B. Cocchiarella, e fu soprattutto allievo del più illustre maestro di fede e di cultura, Michele Malatesta, venuto a mancare nel 2018. A rapporti ottimi con i suoi allievi il professore ci ha fornito esperienze ed insegnamenti utili per la crescita personale e formativa della nuova generazione.

"Ricordo che già da ragazzo quindicenne mi ero posto il problema di come ritenere un qualcosa giusto e valido, è chiaro però che allora, non avendo le conoscenze che ho oggi, non percepii subito che si trattava di riferimenti. Posso affermare infatti che una cosa è giusta solo se la posso associare, ovvero se posso constatarla corrispondente o meno, all'idea di giustizia. Proprio per risolvere il problema che faceva sentire fortemente la sua voce pensai di portare avanti gli studi della filosofia. Diceva infatti un mio amico farmacista di Seriate: " Siccome il primo cliente della farmacia sono io, ho fatto bene gli studi per potermi curare bene". Io, come lui, volevo capire in cosa consistessero l'innamoramento, il cosiddetto "comportarsi bene", i rapporti con gli altri e quanto ancora risultare valido proprio perché esplicato. Capii così che bisognava, per approfondire esse tematiche, andare a studiare siffatti argomenti. Se partiamo dai particolari, avremo, ciascuna volta, conseguenze a questi relative. Non disponiamo, in questo caso, di un parametro per poter rapportarci efficientemente con gli altri, ovvero per riconoscere comportamenti e relazioni, fatto questo che significa, in ultimo non potere riconoscere noi stessi. Da ciò si evince che quelli che non fanno filosofia, ossia non si dedicano a riflettere su essa unità da rintracciare, non possono prima o poi non venire in contraddizione, seguendo soltanto quelle che sono le motivazioni, a meno che una ragione universale non venisse in loro soccorso. Apre così il filosofo Addona l'intervista in risposta alla prima domanda: A che età avete intrapreso gli studi della filosofia e perché proprio questa disciplina? Mi indirizzai su una tale strada proprio per trovare un sostegno a quanto veniva via via a dispiegarsi. Si trattava di cercare le connessioni ai fatti che si dispiegavano e che arrivavano puntualmente ad investire e che potevano far sperare in una risoluzione procedendo con quelle analisi approfondite che peculiarmente la filosofia pone in essere.

E legata a questa prima subito la seconda domanda: “In quale filosofo vi rispecchiate e per quale motivo”: Penso che, come tutta la cultura occidentale dalla quale noi deriviamo, il primo filosofo a cui rifarsi debba essere Socrate, anche se come ho scritto in "Una scuola per una cultura possibile" lui distingueva i pregni dai non pregni e sapeva benissimo che quelli che non avevano nulla da offrire non potevano essere suoi allievi. Faceva già dunque una selezione, anche se questa avveniva su elementi rappresentativi delle possibilità stesse di poter esprimere qualcosa. Ricordo al liceo Mamiani quando in una normale discussione con i miei allievi, feci presente che nessuno dovesse essere accantonato ma, al contrario, bisognasse spendere tutte le energie per portare ognuno al discorso intersoggettivo che permette la vita senza troppe contraddizioni. Chiaramente io, come ho anche scritto in "La determinazione sociale dell'individuo", in qualità di filosofo teoretico vedo nei filosofi parti eccezionali e contributive miste ad elementi che invece non possono reggere, fatto questo che non sempre le scuole portano alla luce. Unitamente, infatti, a quanto ritenuto al massimo livello si fa studiare ai giovani alquanto materiale piuttosto semplice quando non superato o addirittura non coniugabile con la restante parte espressa e che, pure, l'autore oggetto di studio si porta dietro. I giovani, costretti ad imparare quello che talvolta, se non spesso, risulta un coacervo di notizie, pervengono a costruirsi un concetto pesante di quello, che finisce con il risultare anche fastidioso da apprendere e comunque non è visto rispondere ad una logica e costruttiva.

Se facciamo mente locale al principio di identità di Aristotele e al principio di contraddizione di Hegel di certo dovremmo recepire che uno contraddice l'altro. Resterebbe così quantomeno superato, alla luce della scoperta successiva e dalla dialettica rappresentata, il principio di Aristotele. Addentrandoci nelle riflessioni riusciamo a scorgere che Aristotele aveva compreso che non si può pensare una cosa ed esprimerla se non si hanno così come riferimenti ulteriori il tempo e l'aspetto. In questo caso a essere richiamato è il secondo principio, ovvero quello forte, cosiddetto di non contraddizione. Hegel, che aveva colto che proprio il passaggio di essa cosa in altro rappresenta il motore della realtà, pure non può non riconoscere che nello stesso tempo e sotto lo stesso aspetto un qualcosa o è o non è benché per lui un riconoscimento non venga a prodursi che per il passaggio antitetico e quindi per la sintesi. Se qualcuno gli chiedesse come fai a riconoscere una tesi prima che si sia prodotta la sua antitesi Hegel non potrebbe che rispondere che una conoscenza di una cosa non può prescindere dall’opposizione per la quale appunto arriva a essere rappresentata. Lo stesso intelletto statico così come astrattivo dovrebbe essere individuato per la ragione che antiteticamente procede. Se tanto è visto valere per quanto attiene all’ambito umano che riconosce il precedente stato con il superamento di esso e per quello storico pure per quanto attiene ad una fisica o alle scienze cosiddette della natura non può non valere essa identificazione per la quale una comprensione e una comunicazione risultano possibili: un paziente a cui sia somministrata una soluzione o migliora o non migliora. Una linea o una figura o sono uguali a se stesse o non lo sono. In casi come questi a non risultare applicato è il superamento ovvero esso passaggio dialettico. Al riguardo a valere è quanto fatto emergere da Malatesta in “Dialettica e logica formale”, Liquori Editore. Le due individuazioni non sono in contraddizione perché riguardano quantomeno aspetti diversi o, più specificamente, si rifanno a riferimenti diversi. Da tanto l’importanza delle riflessioni e delle riconduzioni. Perché privarci della comprensione, volendo attenerci ad un qualcosa di molto vicino, che l'amico nel quale l’altro arriviamo a rispecchiarci fino a rincorrere quanto infatti non constatiamo in noi stessi e che crediamo di non raggiungere e che però ad un certo punto rileviamo avere addirittura a superato, fatto questo che conduce alla rottura dell'amicizia allora che solo su tanto incentrata, tenuto conto ormai che non c'è più bisogno di un tale modello? Tanto non urta con quel primo principio. Proprio un tale processo rappresenta un filosofare che continua anche se non sempre dai giovani posto in essere. Si tratta di individuare, dunque, esse grandi scoperte considerando al solo livello storico quanto non perviene ad essere ritenuto valido alla luce dei parametri emersi. Tanto vale in modo emblematico per l’Aristotele della logica e della fisica o ancora per quello dell’Etica e della Metafisica. Si tratta, quindi, ciascuna volta, di riconoscere quanto mancante a sostegno e cercarlo con quell’indagine che si dice filosofica così come Cocchiarella ha individuato a proposito della stessa logica che è vista necessitare del sostegno filosofico.

Conclude così questa breve ma approfondita intervista Il Professore Giuseppe Addona.

A cura di Mariarita Matrone IID

 


venerdì 3 aprile 2020

La filosofia come possibilità di rompere anche i luoghi più in voga

A proposito di slogan:

 “L’importante non è vincere, ma partecipare”, quante volte ci siamo sentiti dire questa frase come un incoraggiamento? E ci siamo mai chiesti se lo è davvero e qual è il suo reale significato? Dunque, è il caso di notare che il contesto in cui deve essere analizzata è sicuramente quello di una gara o, più in generale, una competizione. Ci troviamo di fronte a una situazione, quindi, nella quale sono coinvolte solo alcune componenti, messe l’una contro l’altra, tralasciando tutte le altre che rimangono escluse o neutrali, non partecipando (considerando, magari, che non si schierano dall’una o dall’altra parte per ignavia, o, più semplicemente forse non ritengono di avere tutte le capacità necessarie). A questo punto, il discorso si incentra proprio sul concetto di gara che può essere intesa come un confronto agonistico nel quale appaiono trasposte le primordiali lotte in cui, inevitabilmente, d’istinto, vi è la volontà di superare l’altro a costo di affossarlo o denigrarlo. Se lo sfidare gli altri può essere considerato un atteggiamento prettamente individualistica prodotto a danno dell’altro pure, allora che a presentarsi sia una maggiore maturità, si potrebbe pervenire a non paragonarsi obbligatoriamente all’altro, portare avanti una gara rivolge completamente verso se stessi per superare quanto fino ad allora constatato. Considerando una tale prospettiva si potrebbe approdare al superamento stesso di quella dualità o, più propriamente, opposizione tra vincitori e vinti. Si perverrebbe così ad una più alta mentalità, allontanandosi dal convenzionalismo sviluppato dalle masse e potenziatosi in assenza di una riflessione critica. Una siffatta configurazione sembra riguardare anche il pensiero nietzschiano e, in particolare, quello relativo al Superuomo. Non diverso il discorso relativo ad una aristocraticità così come riscontrata in Eraclito ma anche nella ripartizione platonica della società. Il fatto che qualcuno voglia o debba superarsi non implica l’abbassamento dell’altro benché tanto si trovi ad emergere non appena un accostamento risulti prodotto. Dopo il confronto lo stesso Nietzsche invita i vecchi uomini a superarsi per intraprendere quel cammino non tracciato in alcun modo. Ciascuno, dunque, può tendere a superare se stesso al di là del raffronto ovvero della gara pure con gli altri posta in essere e però portata avanti solo rispetto a se stesso. Il ‘’genio’’ può rappresentare dunque quell’innalzarsi rispetto alla precedente posizione. Al di là dei risultati raggiunti rispetto ad altri, determinati da indoli, capacità, allenamenti da considerare sono quelli rispetto alla situazione di provenienza. Lo stesso ‘valicare una montagna’ può significare sia raggiungere una meta lasciandosi dietro gli altri e prendere per sé quanto eventualmente in quel luogo presente o da una tale posizione dominare che salire in alto per mettersi al servizio degli altri, avendo sfidato e superato se stessi. A questo punto potremmo concludere con il dire che una importanza del partecipare ad una gara e non vincerla risulta molto diverso da quella significazione semplicemente acquisita così che a derivarne sia in uno un dispiegarsi in un tale agonismo e un sottrarsi alle conseguenze rappresentate, in primo luogo da un volere vincere e, quindi, da una negatività costituita dall’opposto, da un perdere rappresentato.

Articolo di Chiara Grasso rielaborato da una lezione del Prof. Giuseppe Addona

lunedì 27 gennaio 2020

SHOAH: il fatto tragico che ha colpito gli ebrei nel secolo scorso

Riportarlo oggi alla memoria significa recepirne in pieno la drammaticità e ripercorrere le dolorosissime vicende che subirono i deportati. Andare con la mente a quei tempi da non dimenticare significa rendere un minimo di giustizia rivivendo quelle scene orrende che colpirono donne, uomini e bambini nei lager.

A dispiegarsi non è una sola indignazione morale, la quale potrebbe rispondere a sistemi di valori in atto, perché a essere richiamato è l'intero discorso su un'umanità incentrato. A questo punto non possono non intervenire quelle riflessioni che sono spinte a al massimo livello da quell'indagine che si dice filosofica. Non si può, dunque, non risalire a quelle generalizzazioni dalle quali si può sperare di far emergere oltre che di evidenziare i motivi portatori dei fatti. Solo una considerazione superiore può far sperare quindi di poter far emergere quelle condizioni perché talune tragedie possano essere tenute lontane.

Una validità non può che derivare da un sistema che, in questo caso, non può essere rappresentato che da quello umano.

Che significa, quindi, essere umano?

Considerare l'altro uomo come un altro sé.

Ci possiamo chiedere: è questa una condizione innata che interessa ciascun individuo della specie uomo o bisogna lavorare affinché si stabilizzi quella sensibilità che può essere accresciuta o sostenuta dagli studi umanistici o storici?

Possiamo ritenere rientrare in una umanità un siffatto genocidio?

Se una scuola non può non fornire quegli elementi ad una riflessione per la quale a dispiegarsi siano atti di tal fatta significa che si volge a ché l'individualismo non risulti imperante. Da tenere conto che dai piccoli gesti si passa poi agli altri. Bisogna, dunque, considerare l'altro nella quotidianità per evitare che arrivi a configurarsi quale quell’estraneo per il quale non si avverta alcunché, anzi si possa usare come oggetto quando non addirittura termine sul quale le proprie individualità. Una scuola che tolleri una solidarietà di gruppo per poi questo volgersi contro chi non ne fa parte appare avallare solo un individualismo allargato e potenziato dal concorso di più persone che pervengono anche ad autolegittimarsi sui motivi più vari.

Una scuola può intervenire additando quelle riflessioni dalle quali alquante contraddizioni possano subito essere allontanate. Un accettare dall’esterno molti giovani anche se sembra a volta di pervenire ad un sistema amicale da far ritenere in combutta con costoro non può che risolversi come l’inizio dell’annullamento di ogni umanità costruttiva perché su una critica fondata per la quale ad essere seguito sia quanto da ritenere “vero fino a prova contraria”. Ove non si facesse notare quell’esteriorità non portante si diventerebbe complici di quelle condizioni per le quali ad emergere potrebbero essere le manifestazioni meno controllate e come tali già pericolose. La scuola non può non farsi carico di un tale fatto.

Sensibilizzare i giovani dunque dal non portare avanti comportamenti non riscontrabili unitamente all’intera comunità porta a comprendere le stesse atrocità del passato e le potenzialità che non escludono qualcosa di analogo in futuro. Una trasmissione del sapere incentrato su fatti o anche relazioni non può che risultare secondaria a quella condizione primaria dall'umanità rappresentata. Proprio su tanto dobbiamo insistere con tutte le nostre forze per impostare una società che una umanità possa avere quantomeno a riferimento.

                                                                                                      In ricordo della Shoa 27 gennaio 2020

                                                                                                                         Il Prof. Giuseppe Addona

martedì 21 gennaio 2020

La spiegazione

Ancor oggi molti di noi adoperano il termine spiegare in ogni contesto senza magari averne chiaro il significato originario. Secondo la sua etimologia, dal latino "Explicare", composto da "ex=portare fuori" e "plicare = piegare", o ancora chiudere, sigillare. Spiegare significherebbe, dunque, aprire qualcosa che è piegato su se stesso; in senso metaforico, denoterebbe l'immissione nel discorso di termini tali da renderlo comprensibile oltre che magari verificarlo con il relazionarlo a riferimenti a addirittura ad un sistema a propria volta esplicato e, quindi, compreso. Appare trattarsi, in ultimo, di quell’interscambio con i giovani dove ciascuno si impegna a fare emergere termini e rapporti facendo leva sugli stessi argomenti che, infatti, non vanno semplicemente memorizzati o anche solo organizzati al posto del testo magari in una sintesi anche più o meno arricchita se non infarcita di elementi anche o soprattutto estranei e immessi così come recuperati.

                                                                      Il prof. Addona e i ragazzi di IID