domenica 27 novembre 2016

IL RECUPERO, DA PARTE DI PLATONE, DI UNA CONOSCENZA NON RELATIVA: IL PROTAGORA

Socrate chiede a Teeteto cosa fosse per lui la conoscenza; da notare, per inciso, che il campo di studio si è oramai spostato dall’ ambiente naturalistico a quello umano, a cominciare proprio dai sofisti. Il Socrate che Platone fa parlare ritiene che l’interlocutore col suo impegno e con l’aiuto di un dio, anche se giovane, può arrivare a capirlo. Teeteto infatti spinto dall’incoraggiamento do Socrate prova a rispondere ed afferma che la conoscenza non sia altro che la sensazione. Socrate si complimenta con Teeteto per la sua risposta (poiché è stata molto chiara e afferma che questa sia la stessa risposta data Protagora, sofista, all’ epoca, molto in voga, possiamo aggiungere, in un modo però leggermente differente. Secondo Protagora infatti l’uomo è misura di tutte le cose.

Una cosa è per me come appare a me, e per te come appare a te. Ad esempio un vento che soffia può risultare freddo o fastidioso per qualcuno o caldo o piacevole per altri. A fare da condizione, è esso percepire dunque che è constatato variare da individuo ad individuo. 

“E dunque fu un uomo di grande sapienza questo Protagora, il quale al pubblico grosso [inteso come ampio ed estraneo prima ancora forse che grossolano] come noi disse queste cose in enigma, ma ai suoi discepoli espose in segreto la verità”. Un tale settarismo che in genere è reputato superato pure non scompare ancorché riportato sotto la voce “segreto di stato” e chiusure similari. Le teorie più importanti ma soprattutto le scoperte scientifiche che rappresentano la forza di uno stato o di una società, vengono ancora raccontate in due versioni, ammesso che siano comunicati gli stessi risultati reputati vitali per un popolo o per una società di affari: una al popolo (modificata), e l’altra veritiera solo agli addetti. Da considerare, perché non molto diversi, sono i cosiddetti diritti d’autore. Se questi rappresentano una condizione per recuperare quel guadagno occorrente a vivere pure, per il resto, sono visti stridere con la concezione della libera circolazione della cultura per fornire a tutti quanto ritrovato in un campo quale che sia a cominciare da quello letterario. Se uno scrittore di romanzi ha un lavoro come docente o giornalista certo sorge il dubbio se sia il caso che si avvalga di quei compensi derivanti da opere. Diverso il discorso per gli editori per i quali sui tratta di una impresa. Io personalmente, quando ho potuto, ho messo alquante pubblicazioni on line scaricabili liberamente.  

Se, dunque, tornando al discorso della conoscenza non alcuna cosa fosse per sé stessa, ovvero per Platone assoluta e perfetta e da una idea rappresentata, non potrebbe darsi nome ad una cosa Ad ognuno questa appare diversa, apparendo a ciascuno diversa. Riducendo il campo a quello umano Aristotele perverrà alla individuazione della possibilità di una comunicazione rappresentata dal principio di identità e nelle sue tre formulazioni. Qualcuno così potrà dire questo vento per me è freddo dopo che è stato riconosciuto il significato dei termini presenti in essa affermazione.

Alcuni studiosi hanno avanzato l’ipotesi che il principio di Protagora riguardasse non il singolo uomo, ma tutti gli uomini, oppure un gruppo di uomini, Tanto appare da escludere poiché ove fosse risultata una convergenza non avrebbe una tale concezione suscitato tanto clamore.

 

sabato 5 novembre 2016

A proposito delle trasformazioni delle parole e della cultura critica

Troviamo una parola su un libro:

Stuttgard

Ci viene in mente, a tal proposito, Stoccarda.

O ancora Lussemburgo, Asburgo, Amburgo così come suonano in italiano.

Cerchiamo di addentrarci in un’analisi, come si procede in ogni disciplina scientifica, a cominciare dalla matematica. Individuiamo le lettere procedendo in una comparazione. Potremmo segnare quelle uguali e diversamente quelle diverse.

S t u t t g a r d

S t o c c r d a

Allora che sappiamo che i tedeschi accoppiano due parole per formarne una, ci viene da osservare che Stutt potrebbe essere separato da Gard. Ove riscontrassimo altre parole presentanti una di queste parti si potrebbe tentare di pervenire al significato di una di queste facendo leva sul contesto. Da questo ad emergere magari è che si tratti di città o altro.

Noi sappiamo altresì che persone, soprattutto non addentro agli studi, trovano difficoltà nel fermarsi per riprendere poi la pronuncia di una parola. Quello che in altri termini arriva a essere ritenuto iato appare superato inserendo lettere che permettano una espressione unica e per tanto più facile. A questo punto legano le due parole. Abbiamo recepito criticamente quello che sappiamo dal ginnasio, ossia trattarsi di assimilazione e di contrazione.

La T, che in questo caso si presenta ripetuta, cade e la consonante successiva si raddoppia rafforzandosi. Sappiamo altresì che la G è sostituita dalla C con un suono forte come avviene, per il resto nei linguaggi A e B del codice dantesco che affronteremo in seguito. Viene fuori quindi che la G diventata C si raddoppia. Sappiamo anche che la T è intercambiabile con la D sempre secondo i codici già individuati e per quanto riusciamo a rilevare direttamente allora che consideriamo parole pronunciate in una regione e in un’altra. Noi sappiamo altresì che il latino arcaico si esprime una “o” diventata in seguito “u”, fatto questo che arriva a valere per gli idiomi longobardi che si sono conservati sia nella regine lombarda che in quella piccola da Benevento rappresentata. Noi sappiamo che due sono i codici della commedia di Dante dai quali derivano tutte le varie edizioni e risalgono al Cinquecento.

Uno puntualmente riporta la U (u i dissi u ben s’impingua)

L’altro la O (o i dissi o ben s’impingua)

 

Quello del Sud è detto codice A, quello del Nord è detto codice B.

Riconsideriamo ancora Stoccard. Siccome le parole italiane prevedono la vocale finale, la si aggiunge appunto, ed essendo femminile, quella che un tale genere designa è la “a”. Viene quindi Stoccarda.

Passiamo ora all’analisi degli altri due nomi:

Lussemburgo

Asburgo

Amburgo

La parola comune è “burgo”. Applicando le ipotesi di cui sopra potremmo ricavarne “borgo” e infine castello o città o comunque luogo abitato da un gruppo. La “m” potrebbe avere preso il posto della “n” davanti alla “b”. Tenuto conto che delle altre variazioni a cominciare dalla “f” o dalla “v” a propria volta corrispettiva di una “u”; ua in ciociaro e non solo e non uva, potremmo pensare ad una città di volta in colta di Lussen, di As o Aus, o di An-Am.

A questo punto ci sembra opportuno riflettere sullo studio delle lingue nelle scuole, a cominciare da quelle classiche. A cosa serve infatti imparare tante eccezioni o nozioni che spesso sconfinano nella tecnica? Forse allo studioso? Ma lo studioso non si forma all’Università e ancora in seguito? Al giovane studente, che affronterà il percorso universitario, non servirà se non la “logica” con la quale ha individuato quelle stesse, anche se non tutte, e affronterà le varie discipline e le specializzazioni?

Per ulteriori approfondimenti allargati anche ad altri ambiti disciplinari si rinvia a Giuseppe Addona “Una Scuola per una Cultura Possibile” Bonanno editore.

Articolo scritto dalla I C da una lezione del prof. Addona

I PROBLEMI INERENTI AL PRINCIPIO

Il principio, proprio in quanto tale, non ammette dimostrazione ovvero supporto alcuno risultando esso stesso la condizione di quanto ritenuto derivare. Allora che a essere assunte sonno le omeomerie dal greco omos (stesso) e meros (parte) sono esse a rappresentare intera la realtà come parti che non possono per quanto ripartite essere distrutte. Ove tanto accadesse a scomparire sarebbe la stessa realtà da esse costituita. Stesso discorso per gli atomi di Democrito con i quali si è pervenuti ad una astrazione maggiore risultando questi definiti in negativo: non ulteriormente divisibili. Dalla composizione di questi in un caso e di quelle in un altro sono reputate discendere le cose che, appunto, si formano. Ove gli elementi costitutivi di esso intero mondo fossero finiti ammetterebbero altro da sé. A una tale considerazione era pervenuto Aristotele il quale “indagando dapprima l’opinione di Anassagora”, ci indica anche il motivo per cui costui “sia giunto a una tale supposizione.” Se a scomparire fossero essi elementi, omeomerie o atomi, a restare non sarebbe alcunché con il qual formarsi i composti, fatto questo che aveva fatto emergere Zenone con le sue famose confutazioni scambiate per lungo tempo per dimostrazioni. Lo stesso discorso vale per il principio di Pitagora dai numeri rappresentato. Questi devono potere esprimere quella realtà ancorché ridottissima per la quale configurarsi i restanti elementi tutti. Quanto deriva dipende, dunque, da quanto assunto e ritenuto dispiegarsi in modalità magari anche per l’intervento di elementi aggiuntivi che risultano però più difficili da essere compresi, ciascuna volta, in un principio.

 

 

A siffatte concezioni ciascuno di tali filosofi giunge ritenendo che niente si produca dal niente, discorso questo emblematicamente portato avanti da Parmenide relativamente all’essere. Un tale principio arriva a essere mantenuto dai filosofi che si susseguono i quali, per rendere spiegazione del movimento e delle composizioni lo considerano costituito da più elementi.

Una lezione del prof. Addona riportata da Francesco D’Andrea I C.

DALL’ESPERIENZA ALLA SCIENZA

“Come si fa a fare scienza senza conoscerne il metodo?”

Le esperienze sono rappresentate da quella conoscenza che si è formata su un insieme di elementi a partire dalle sensazioni. Essa benché non possa essere considerata quale una semplice somma pure non si allontana da una configurazione su una sintesi incentrata. Se la serie di esse osservazioni non può risultare completa ovvero non raggiungere quella universalità da cui una necessità di quanto pure predicato va incontro a quello che possiamo ritenere un altro problema, rappresentato specificamente dal non potersi procedere al di là di esso insieme così come venuto a costituirsi.

Possiamo osservare innumerevoli volte un oggetto cadere o più oggetti senza andare al di là di una conoscenza rappresentata dal fatto che un corpo lasciato senza appoggi cade. Al di là del fatto che potremmo trovarci di fronte ad un corpo, quale un palloncino gonfiato con gas più leggero dell’aria, che lasciato, anziché cadere, è visto volare via ovvero muoversi all’opposto delle precedenti osservazioni, senza pervenire ad una “legge” di caduta dei corpi. Di esse esperienza appare altresì potere essere trasmessa soprattutto una sintesi, ancorché ci si possa affidare a quanto, raccontato riesca in un certo modo ad essere recepito nonché magari piuttosto rielaborato.

Su un tale discorso arriva ad inserirsi quella che Aristotele chiamava arte benché non sempre distinguendola da quella che pure riteneva scienza. Al di là di tanto noi consideriamo arte la capacità di mettere insieme mattoni o pezzi di legno in modo tale da ottenere un prodotto qualificato: una casa in un caso e un mobile pregiato nell’altro. L’artigiano si è servito della sua arte nel mettere insieme gli elementi fino ad intervenire per ottenere l’effetto in caso di “riluttanza” da parte di fattori magari intervenuti. Egli tuttavia potrà dare indicazioni al discepolo perché obiettivi siano raggiunti ma non potrà spiegare tutti i vari passaggi poiché non chiari risultano gli elementi stessi sui quali interviene. Un carrozziere potrebbe raccomandare così di percuotere una lamiera perché possa raggiungere, anche se non interamente, la posizione originaria. A non risultare trasmissibili sono i termini non individuati e soprattutto le cause. Individuazione che può essere data, ancorché non in modo assoluto, dalla misurazione in un sistema intersoggettivo.

Se dal particolare, altresì, non emerge il generale ossia l’universale, pure da una teoria deve risultare il recupero di fatti specifici così che a discenderne possa essere una concretezza. Non appare, dunque, possano viaggiare isolate teoria e pratica. Quell’ingegnere che non sapesse risolvere un problema pratico che pure dovrebbe essere contemplato in quella conoscenza teorica, non sarebbe, a tutti gli effetti, un ingegnere.

Se in geometria, non prendiamo in considerazione una sfera o un rettangolo particolari, ma quello pensato in certi termini pure non possiamo non collegare i risultati ai quali siamo pervenuti ai casi concreti che si dispiegano e una risoluzione chiedono.

Al di là delle esperienze, dunque, che arrivano a formarsi anche altri animale e sulle quali fare leva per mantenersi in vita, vediamo cosa connota il passaggio ad una scienza.

Gli elementi cessano di rappresentare un qualcosa empiricamente rilevato per essere “tradotti” con una misurazione. Quello che prima era indicato quale un oggetto diventa un termine misurato. Similmente accade per i vari elementi rappresentativi di una esperienza a cominciare da una distanza percorsa e da un tempo nel quale un fenomeno è rilevato.

Si tratta, dunque, di eliminare per quanto possibile le variabili facendole diventare termini noti rintracciabili per la misura.

Non un corpo dunque che è visto cadere ma quel corpo di quel peso, con quel volume in un certo tempo per una certa altezza. Per facilitare i calcoli un tale corpo si costruisce con caratteristiche tali da risponde il più facilmente possibile ai calcoli.

Non prendere un corpo con una forma presentante molte variabili poiché queste intervenendo ci costringerebbero a calcoli ai limiti delle possibilità fornite dai termini conoscitivi in atto. Una stessa matita potrebbe, cadendo, posizionandosi diversamente, impiegare un tempo maggiore o minore come vediamo accadere ad una freccia scagliata da un arco da una posizione o da un’altra. Per cominciare a ridurre le variabili adotteremo per l’esperimento una sfera la cui caduta risulta indifferente, risultando la forma solo quella. Anche il peso di questa risulterà poiché appunto misurato ovvero essa sfera sarà stata pesata. Risulterà costruita perché pesi 100 grammi.

Lo stesso discorso vale per l’altezza. Tenuto conto che l’esperimento lo provochiamo assumeremo un’altezza corrispettiva di numero pari.

Procediamo, dunque, a lasciare la sfera magari di un dm3 dall’altezza di un metro e misuriamo il tempo di caduta che diventa, a questo punto, noto. Ripetendo l’esperimento da un’altezza doppia ci aspettiamo che il tempo raddoppi. Dalla misurazione tanto non risulta. Ritenendo di avere sbagliato, riproviamo. Anche se il tempo risulta diverso ance se magari di poco da quello in precedenza rilevato non risulta comunque doppio così come ci aspettavamo.

Che cosa sarà successo?

Proviamo a farlo cadere questa volta da un’altezza di tre metri. Ancora a darsi è quella che al momento possiamo ritenere una sfasatura. Proviamo ancora a farlo cadere da un’altezza quadrupla. Il “problema” si ripresenta. Cambiamo a questo punto il peso della sfera e riproviamo per quelle stesse altezze precedenti. Quanto prima constatato si ripresenta. Cambiamo il volume sostituendo una sfera di 2 dm3 e poi ancora con una di 3 dm3. A restare è quella “diversità”. Proviamo a fare emergere i rapporti e se saremo fortunati troveremo un numero per il quale risultano spiegate essere variazioni. Abbiamo trovato la “legge di caduta dei corpi” almeno in un certo ambito e fino ad ulteriore prova contraria. In altri casi non valgono nemmeno interamente quelle formule che presentano una complessità tale nel tentativo di fare emergere quanto si dispiega in una “misurazione” ricorsa in siffatti termini.

Proviamo con un esempio più semplice. In assenza di misurazioni, i nostri antenati che dovevano comunicare come ottenere una pagnotta non potevano che fare leva su espressioni quali, prendi la farina, aggiungi un po’ di sale, impasta con acqua, aggiungi un po’ di lievito, magari indicato con una manciata, fai stare per una notte, a non essere considerata era la stessa lunghezza di questa, poi inforna e aspetta che sia cotta. Appare evidente che il prodotto risultava alquanto diverso in base ai parametri che risultano quantomeno ridotti allora che ridotte siano le variabili. Tanti chili di farina, con tanto sale (pesato similmente) con tanta acqua e tanti grammi di lievito da lasciare in un ambiente ad una certa temperatura per quel tempo (specificato) e quindi mettere al forno, ad quella temperatura similmente indicata e lasciare per tanto tempo. Ove a non intervenire fossero termini ulteriori e non noti a derivare dovrebbe essere un prodotto piuttosto omogeneo.

Essa scienza, dunque, può essere spiegata perché individuati risultano i termini del processo sul quale si applica.

 Articolo scritto da D’Angelis Flaminia, I C da una lezione del prof. Addona

lunedì 17 ottobre 2016

IL RECUPERO DI ALCUNI ELEMENTI NON ESPRESSI NEL TESTO. LEGGERE AL DI LA’ DELLE RIGHE!

Le cavalle che mi trascinano, tanto lungi, ma lontano da dove? Dal posto migliore dove era lui o al contrario? quanto il mio animo lo poteva desiderare, ad emergere è la seconda ipotesi, incentrata da un desiderio che non può spingere a a qualcosa di maggiormente appagante mi fecero arrivare, poscia che le dee portarono sulla via molto celebrata che per ogni regione guida l’uomo che sa se c’è una via celebrata di chi sa, ce ne deve essere anche una non celebrata di chi, appunto, non sa.

Là fui condotto: là infatti mi portarono i molto saggi corsieri che trascinano il carro, e le fanciulle mostrarono il cammino. L’ asse dei mozzi mandava un suono sibilante […] tutto in fuoco (perché premuto da due rotanti cerchi da una parte e dall’altra) tanto sembrerebbe fare da corrispettivo a quel qualcosa di desueto quasi a rappresentare un’allegoria di quanto la mente umana si affatichi per seguire un discorso complicato, allorché si slanciarono le fanciulle figlie del Sole, lasciate le case della Notte, a spingere il carro verso la luce, levatisi dal capo i veli negativi perché non ti consentono di vedere. A delinearsi nettamente oramai è quella dimensione, dalla luce rappresentata, che consente di vedere e cogliere, infine, la verità.

Là è la porta che divide i sentieri della Notte il non comprensibile e del Giorno il sapere vero […] Le fanciulle, allora, rivolgendole discorsi insinuanti […] la convinsero accortamente a togliere per loro la sbarra velocemente dalla porta. […] Sembrerebbe che un sapere non sia elargito semplicemente ma perché sia elargito debba essere efficacemente supplicato.

[…] La dea mi accolse benevolmente, […] e mi rivolse le seguenti parole: “O giovane, che insieme a immortali guidatrici giungi alla nostra casa con le cavalle che ti portano, salute a te! […] Bisogna che tu impari a conoscere ogni cosa […] Quanto Parmenide reputa lo lascia affermare alla Dea, perché acquisti forse maggiore credibilità. L’importanza di pervenire a quanto può essere recuperato non solo tra le righe ma, come diceva un genitore abbastanza noto di un alunno del liceo “Tasso” di Roma, attraverso i fogli e talvolta attraverso i muri appare evidente e rappresenta la condizione per orientarsi soprattutto nella mole di informazioni proiettate dai mezzi di comunicazione di massa. Si tratta in ultimo di pervenire ad un qualcosa di verosimile e quindi di effettivo sul quale fondare se stessi e il rapporto con altri. 

DK 28 B 1, vv. 1-17, 20-32, trad. it. Di P. Albertelli, ne “I presocratici. Testimonianze e frammenti, a cura di G. Giannantoni, Laterza, Roma-Bari 1969

Articolo scritto da D’Andrea Francesco, I C anno 2016-2017 da una lezione del prof. Addona.

 

ORIENTAMENTO IN UN DISCORSO

CLASSE: I C
                                       PROFESSORE: Giuseppe Addona

APPUNTI DI FILOSOFIA
             15/09/2016

Perché prendere appunti?

Per poter ricomporre quanto emerso e produrre su tanto le riflessioni.

Come procedere in una tale operazione?             

Appuntare sembrerebbe indicare quel fissare, per iscritto soprattutto, un minimo perché sia poi ricostruito quanto venuto fuori da un incontro che possa essere rappresentato da lezioni, conferenze o quanto altro. Va da sé che non è il caso di riportare quanto già presente in un libro e soprattutto specificato nelle note. Appare funzionale dotarsi di strumenti che possano permettere una registrazione nel minor tempo possibile. Una penna, dunque, dall’inchiostro scorrevole nonché impugnata nella maniera più funzionale: porre le dita quanto più possibile distanti dalla punta. Il movimento prodotto in tali termini si amplia benché a risentirne sia la precisione che in questo caso cede il posto al numero di elementi da rilevare e in un tempo ridotto. Diverso il discorso per la bella copia dove a valere è, appunto, il contrario: una penna con inchiostro che non macchi e le dita più vicine alla punta per ottenere una maggiore precisione.

 

LO STUDIO

E’ importante concentrarsi al più presto sugli argomenti affrontati in aula portando avanti correlazioni e facendo leva su riferimenti fatto questo che equivale a dire porre in essere una critica. Ove non si procedesse, giorno per giorno, in siffatte analisi ed organizzazioni, facendo leva su appunti relazionati ai testi e individuando gli elementi portanti al punto da porre in essere una organizzazione ancorché aperta, fatto questo che significa comprendere un discorso nella sua generalità recependone, appunto, i termini chiave ai quali correlare fatti specifici, ma si studiasse in vista di una interrogazione accumulando materiale non criticamente collocato si preverrebbe ad un nozionismo che anche a medio termine scomparirebbe per lasciare il posto piuttosto ad un vuoto quando non ad elementi sganciati e senza possibilità alcuna di essere ricondotti ovvero compresi, fatto questo solo per il quale appare possibile parlare di cultura che interviene non appena richiamata. Essa è infatti ritenuta come ciò che resta dopo che si è dimenticato. Il professore Addona nel libro Una scuola per una cultura possibile, Bonanno editore fa presente che è inutile far imparare argomenti che poi si dimenticheranno. Si appesantisce infatti inutilmente la mente, la quale finiti gli studi scolastici “resetta” tutto spazzando via quanto con molti sforzi inculcato.

 

FILOSOFIA

Si tratta ora di approcciarsi alla Filosofia, avremmo potuto cominciare dal famoso “Che cos’è Filosofia?” Come molti libri propongono o magari chiederci, come ancora avviene in molti manuali, “Perché questo modo di approcciarsi al mondo sia nato in Grecia?”

 

Se è possibile capire abbastanza cosa sia filosofia soltanto dopo un percorso perché da esso emerge il suo “essere”, tuttavia possiamo avvicinarci ad essa partendo da fatti accaduti. Capire significa comprendere il tutto;

Siamo partiti da un fatto:

 “Hai mai giudicato un’amica?”

 “Hai mai raccontato che lei si è comportata male?”

A rispondere è una ragazza:

 “Se dico che si è comportata male debbo chiedermi a cosa risponde il mio giudizio.”

 “Gli elementi espressi da lei coincidono con quelli che io mi aspettavo?

Se quindi io sono rimasta male, significa che quanto proposto è venuto ad urtare con le aspettative. Proviamo a simbolizzare:

Con “C” intendiamo Comportamento;

Con “A” attesa;

Con “N” non;

Con “Ar” arrabbiatura;

Con “NA” non attesa;

   C = A → N Ar

   C = NA →Ar

   N Ar → C A

Emerge quindi che noi ci arrabbiamo quando il comportamento dal quale risultiamo interessati è diverso dalle nostre aspettative e nel momento in cui lo comunichiamo reputiamo che queste coincidano con coloro che ci ascoltano.

Stiamo filosofando! Ad emergere da un tale discorso è già un significato di filosofia: ricondurre i termini a qualcosa che possa sostenere quanto espresso.

Proviamo a chiedersi ora cosa significa riflettere

                   Già attenendoci a quello che possiamo recuperare dalla parola ri-flettere, oltre che dal latino, ad emergere è un piegare all’indietro e procedere su tanto nuovamente.

Tanto significa che non bisogna recepire un qualcosa che risulti espresso da una sola direzione ovvero così come proposto e per le connotazioni che arriva da subito ad acquistare ma recuperare anche quella “opposta”, rappresentata dalla via percorsa in senso contrario nonché ripercorsa fino, possiamo aggiungere, a trovare altre relazioni dalle quali a dispiegarsi siano ulteriori configurazioni.

In un caso, dunque, le predicazioni risentono di un riferimento e nell’altro di un altro riferimento e di altri ancora. Ad emergere è quindi una visione sempre più aperta man mano che ad aggiungersi sono riferimenti.

 Appare possibile così elaborare vari parametri e punti di vista che possono supportare e correggere quello che è stato detto in precedenza. Con le riflessioni quindi appare possibile integrare e correggere quanto ad un primo impatto ritenuto.

Se non lo facessimo cosa ne conseguirebbe?

Emerge con evidenza che resteremmo ancorati e quindi chiusi in quella prima “concezione” laddove, proprio dall’apertura può derivare la possibilità di correggere sviste o errori.

 

I COMPORTAMENTI

Comportamenti impulsivi, ovvero istintivamente e istantaneamente posti in essere, possono risultare denotativi di quanto arriva a caratterizzare nel modo più peculiare un esistente oltre che cogliere obiettivi. Quali garanzie abbiamo, tuttavia, di aver operato nel modo migliore, ovvero in una espressione tale da reggere soprattutto rispetto ad altre? Ad emergere, da subito sono correlazioni e quindi quella riflessione già considerata. Valutando appunto modalità e riferimenti ulteriori, possiamo pervenire ad allontanare quelle posizioni rivelatesi non sostenibili né apportare i maggiori vantaggi ad esso esistente e, soprattutto, consentire a esso soggetto di non esprimersi magari in una contraddizione.

Si tratta di cogliere, dunque, accanto ad una funzionalità, una giustizia e quindi l’essere di quello che, diversamente, si presenterebbe solo quale un esistente non valutato in un tempo e quindi nelle relazioni per le quali possa essere recepito e, dall’altro lato, supportato.

 

L’INDAGINE FILOSOFICA CONTINUA

Al di là di quanto già emerso, si tratta di spingere sempre oltre i riferimenti in un processo, dunque, continuo, fino a trovare un primo principio o, fatto che non risulta diverso, pervenire a ritenere la stessa impossibilità di coglierlo. Proprio allora che pervenuti a quello, alcuni si arrogano il diritto di spiegare tutto, sfociando in illazioni che spesso hanno portato molti utenti marginali della filosofia a far ritenere che questa sia “quella cosa con la quale o senza la quale il mondo rimane tale e quale”.

Sovente infatti con un principio trovato molti filosofi tendono a piegare l’intero universo che ci circonda, producendo forzature.               

Il valore dell’indagine filosofica è rappresentato dalla validità degli elementi ritrovati rispetto a quelli che, in caso contrario, sarebbero o ignorati o ritenuti con le incongruenze non scoperte. Si tratta, tuttavia, di non bloccarsi ai risultati ai quali quasi sempre con molta fatica si è pervenuti ma avere il coraggio di mantenere quell’apertura sulla quale possono inserirsi le ricerche di altri. Proprio la chiusura su un tutto definito intorno a ciò che è stato trovato richiama quello sforzo a sfondare una tale fortezza per poi procedere oltre. Appare evidente che meglio sarebbe lasciare la porta aperta a quegli alleati che possano concorrere alla ricerca di quanto giungerà a dispiegarsi come più vero così come da Socrate colto.

 

Torniamo comunque al discorso che stavamo portando avanti. Quando ci arrabbiamo non solo rispondiamo a quanto arriva a dispiegarsi per un istinto o status di quello che si dispiega quale un esistente ma talvolta siamo convinti di aver ragione e che l’amica stia sbagliando rifacendosi ad elementi non, tuttavia, a propria volta fondati al punto da reggere così come da essa ragione universale richiesto.

Non appena riflettiamo non possiamo non fare leva che o su ciò che giungiamo a rilevare che quella si è posta con un comportamento diverso da chi sta indagando e da quello della comunità civile. Ad una indagine che si spinge ancora in avanti può emergere che la stessa società assunta a riferimento non si presenta in modo granitico ma con differenziazioni dalle quali ad emergere, spesso, è anche un qualcosa di antitetico. Si tratta allora di risalire a quanto possa supportare l’insieme o negarlo facendo leva, questa volta, su essa ragione universale ancorché correlata a fattori storici portanti una società. Liberare dalle stesse pastoie correnti è stato un traguardo posto in essere da tantissimi filosofi: emblematici al riguardo Senofane ed Epicuro, i quali additavano ad una liberazione da false ritenzioni riguardanti gli dei.

 

Si tratta di ricavare, altresì, validità dai vari paragoni interessanti diverse comunità nonché le differenti manifestazioni all’interno di uno stesso il gruppo sociale. Ciò seguendo una ragione che arriva a dispiegare di volta in volta una propria dimensione al di là degli stessi parametri di riferimento fino a considerare se essi comportamenti possano reggere, almeno finché non siano trovati altri maggiormente funzionali.

Se ogni comunità, dunque, presenta un suo modo di pensare ovverosia dispiega una sua cultura da cui una validità deriva, quando non semplicemente una univocità che porta a chiusure e imposizioni, bisogna sforzarsi di andare oltre fino ad incontrare gli altri in una intersoggettività.

Articolo redatto da D’Angelis Flaminia da una lezione del prof. Addona. Per approfondimenti della tematica si rinvia al lavoro Giuseppe Addona “Percorsi di filosofia” vol. I.

sabato 8 ottobre 2016

IL PRINCIPIO RAPPRESENTATO DALL’ETERNO FLUIRE: ERACLITO

“Congiungimenti sono intero non intero, concorde, discorde, armonico, disarmonico, e da tutte le cose l’uno e dall’uno, tutte le cose.”

Da un tale passo emerge che Eraclito era abbastanza oscuro. Tanto, probabilmente sia perché in siffatti termini reputi costituita una realtà e sia perché magari una tale espressione possa apparire alta o non offerta ad una massa o ancora possa scioccare, stimolare, provocare. Da considerare, in primo luogo, è la possibilità di individuare tali opposizioni. A dispiegarsi dovrebbe essere un metasistema dall’uomo posto in essere. In caso diverso a presentarsi sarebbe il problema costituito innanzitutto dalla comprensione dei vari termini in un tale movimento di interscambio. Gli stessi congiungimenti appaiono presupporre ciò che ciò che è separato e che però non resta tale né espresso in una sua autonomia.

Ma dove si trovano questi opposti? Nel logos, poiché rappresenta il tutto ed abbraccia sia intero che non intero? In tal caso però a risultare sarebbero essi termini in continua trasformazione ed un logos. Diverso il discorso allora che questi rappresentassero il logos stesso.

Il logos eracliteo sembrerebbe superare, per la generalità che arriva ad esprimere, lo stesso numero come principio così come da Pitagora ritenuto. Al di là del complesso rapporto tra il numero uno e gli altri nel loro insieme, nonché della divisione tra il pari e il dispari il logos racchiude tutto e non ha bisogno di recepire o produrre altro poiché esso nel suo insieme si presenta come realtà senza che ad essere presupposto sia alcunché che debba fare da principio.

“L’opposto concorde e dai discordi bellissima armonia …”

Anche il rilevare una tale armonia appare necessitare di quanto un tale giudizio giunga a consentire.

“Una e la stessa è la via all’in su e la via all’in giù” […] Una tale dimensione risulta completa e non necessitante di riferimenti. Nel logos non esistono differenze al di là del fatto di portare armonia. Una tale concezione era stata recuperata già da Pitagora il quale riteneva che la terra non fosse sostenuta da nulla, non avendo modo di cadere da una parte meno che da un’altra meno.

“Il mare è l’acqua più pura e più impura …” Ancorché riportante esempi pratici, a non emergere in termini chiari è proprio la “cosa” di cui sta parlando, per questo vale quanto già emerso ovvero l’oscurità con la quale Eraclito si esprime.

“…Per i pesci essa è potabile e conserva la loro vita, per gli uomini essa è imbevibile e esiziale” (dannosa, mortale). A essere fornita, in questo caso è la spiegazione.

Ora citiamo il passo che tutti gli studenti di liceo ricordano:

“Negli stessi fiumi scendiamo e non scendiamo, siamo e non siamo …” A fare da riferimento a quello che si presenta quale un movimento che si rivelerà come principio è il soggetto che recepisce un tale scorrere. “Polemos [la guerra] è padre di tutte le cose, di tutte re”. La mutazione arriva a prendere corpo come guerra potenziando, dunque, il contrasto. [] “e gli uni svela come dei e gli altri come uomini” ad emergere sono le conseguenze portata da un tale principio.

Se mettiamo un piede in un fiume, scendiamo e però mentre mettiamo il piede, l’acqua scorre quindi non scendiamo in quello che però, nel suo insieme, pure è considerato fiume. Diverso il discorso per le acque. Sembrerebbe che a concretizzarsi, in tal caso, sia quello che risulterà un artificio portato avanti dai Sofisti e da Aristotele scoperto. Allora che un tale discorso riguardasse un lago dove l’acqua sia ritenuta, almeno per convenzione, ferma di fronte ad uno scorrere constatato interessare un fiume sembrerebbe potersi scendere, e però anche non nel caso fossimo noi a trasformarci attraverso il processo della crescita o dell’invecchiamento, oppure se la stessa acqua divenisse vapore. In ogni caso a dispiegarsi non è un elemento definito, poiché tutto va a collegarsi con il suo opposto esprimendo esso logos.

“… nello stesso fiume non è possibile scendere due volte” Tanto perché sia l’acqua è passata e sia perché noi non siamo più quelli di prima.

                "Polemos è padre di tutte le cose, di tutte re" Sembrerebbe che a subentrare per potenziare il passaggio di essi contrari sia Polemos che però dobbiamo, per non recepire un dualismo, intendere come motore di quel logos anzi quale potere con cui esso logos si esprime.

"... e gli uni disvela come dei e gli altri come uomini, gli uni fa schiavi e gli altri liberi"

Il logos che rappresenta il tutto pure, momentaneamente, sembrerebbe esprimersi o esprimere elementi che arrivano a essere percepiti in tali termini ancorché non sottratti al movimento che continuamente investe il tutto ovvero specificamente i contrari da cui a derivare è essa armonia.

                                                                  

 […] “che tutto accade secondo contesa e necessità” rappresentano queste, così come già prima Polemos modalità di esso logos? In caso contrario a valere sarebbe il discorso sopra affrontato.

                                                                

“Di questo logos che è sempre” un tale insieme si presenta come principio e organico “gli uomini non hanno intelligenza” si rivolge a tutti gli uomini o a tutti tranne che a lui o ad altri pochi? Sembrerebbe che dovesse essere escluso lui che tanto conosce. Se invece rientrasse, su quali basi potrebbe produrre una tale affermazione? “sia prima di averlo ascoltato sia subito dopo averlo ascoltato benché infatti tutte le cose accadono secondo questo logos” il logos si configura esplicitamente quale principio, “essi assomigliano a persone inesperte, pur provandosi in parole e in opere tali quali sono quelle io spiego” una delle ipotesi prodotte è stata confermata ovvero che lui fosse escluso dalla restante parte  degli uomini “distinguendo secondo natura ciascuna cosa e dicendo com’è”. Un tale ordine risulta da Eraclito affidato alla natura. “Ma agli altri uomini rimane celato ciò che fanno da svegli”, da tanto emerge ulteriormente il suo essere aristocratico. Una tale rilevazione risulta molto diversa da una acquisizione meccanica derivante da una “introduzione” all’autore che spesso diventa lo studio definitivo.

                            DK 22 B 1, trad. it. Di G. Giannantoni

Lezione del prof. Addona riportata dagli alunni della IC

ERACLITO
Di questo logos (che cos’è? Dal greco ricaviamo un primo significato che è quello di organizzazione. Basta tener conto che il suo contrario è caos) che è sempre (quindo non sembra affidarsi, Eraclito, a un qualcosa che compare o scompare e già tanto ci fa pensare probabilmente al principio che è sempre, mancano però ancora la derivazione, la motivazione.) gli uomini non hanno intelligenza (si rivolge a tutti gli uomini o a tutti tranne che a lui o tranne che a qualcuno? Sembrerebbe che dovesse essere escluso lui che tanto conosce, perché altrimenti, se invece rientrasse, come farebbe a dire che gli altri non capiscono?) sia prima di averlo ascoltato sia subito dopo averlo ascoltato (notiamo subito uno stile arcaico perché ripete due volte il termine “sia”. Quindi questo logos si ascolta? Quindi per essere ascoltato significa che deve essere espresso in termini fonetici? E comunque sembrebbe ribadire qui, la negatività degli uomini che non ne “hanno intelligenza” non solo prima, ma nemmeno dopo.) benchè infatti tutte le cose accadono secondo questo logos (quindi emerge ora che il logos si presenta quale principio, perché tutte le cose da esso derivano e tanto appunto si dice principio.) essi assomigliano a persone inesperte, pur provandosi in parole e in opere tali quali sono quelle io spiego (siamo  finalmente giunti a confermare la nostra ipotesi secondo la quale lui fosse escluso da tutto il resto degli uomini. Da studenti quindi possiamo essere soddisfatti perché ancora una volta abbiamo preceduto il testo.) distinguendo secondo natura ciascuna cosa e dicendo com’è. (Questo ordine risulta da lui affidato alla natura). Ma agli altri uomini rimane celato ciò che fanno da svegli, (emerge ulteriormente il suo essere aristocratico [che succederebbe allora se avessimo letto e imparato meccanicamente in una “introduzione” all’autore che spesso diventa lo studio definitivo che è un aristocratico? Imparando meccanicamente avremmo riempito il cervello unicamente di una ulteriore nozione]) allo stesso modo che non sono coscienti di ciò che fanno dormendo. (avvalora l’affermazione ammessa nelle parole precedenti perché sarebbero stati giustificati da dormienti, ma non da svegli, allora che non capiscono similmente a come avviene allora che dormono).

                            (DK 22 B 1, trad. it. Di G. Giannantoni) 
                                                                                                         IC

sabato 21 maggio 2016

A proposito di alcune contraddizioni giovanili

Tutta la forza della comunicazione, fosse quella di un film, sta proprio nella rottura di quelle che sono le condizioni di base.
Ad esempio, un soggetto cresciuto in periferia adotta un determinato comportamento, che corrisponde a quei parametri secondo cui si è formato. Se rapiscono una persona, questi dovrebbe comportarsi come gli altri, perché è frutto dell’ambiente, invece viene fuori il gesto di eleganza per il quale egli libera questa persona. Questo gesto, che noi definiremmo nobiltà d’animo, non è frutto dell’ambiente e ci testimonia che il comportamento di un soggetto non dipende solo dal contesto in cui vive.

Rousseau aveva capito che sono proprio le relazioni sociali a mettere su certe tipologie.
Se per esempio una ragazza si trovasse su un’isola deserta e vedesse un solo ragazzo, non lo considererebbe né bello, né brutto, sarebbe quello e basta perché non avrebbe a disposizione altri elementi con cui confrontarlo.
Sono proprio i valori sociali, oggi i valori mondiali, gli “idoli” a cui  fare da riferimento.
Guarda caso però, quelli che più paragonano, che sono vittime della società, sono quelli che dicono di non fare paragoni.
 Quando le persone non sono arrivate a una maturità, siccome sono frutto dell’ambiente, recitano due tipologie  e non si accorgono che vanno in contraddizione.

Claudia pone una domanda:
Ma allora sarebbe meglio se non ci fosse una diversificazione e se esistesse un unico concetto di giusto e di sbagliato?
Se fossimo tutti uguali, non avendo diversificazioni, come potremmo per esempio innamorarci o  stare insieme ad uno anziché a un altro se non c’è alcuna differenza? Dovremmo dire di stare insieme solo perché sentiamo di farlo, ma non potremmo innamorarci sicuramente, perché non ci sono gli elementi da provocare un tale stato ovvero non si presenterebbero gli argomenti per la scelta. Infatti se tutti fossero uguali sia anche nel comportamento, ci sarebbe l’uguaglianza totale e a questo punto perché scegliere una persona piuttosto che un’altra, tenuto conto che non dovrebbero emergere nemmeno i riferimenti fisici?
Non si può quindi non rispondere alla domanda se non con un’altra domanda.
Possiamo augurarci dunque di avere tutti la giustizia, ma di fronte alla sensibilità non possiamo dire lo stesso.  Per questa infatti dobbiamo solo auspicare di avvertire l'altro soggetto, ma in che termini possiamo inserirlo nella sua interezza? Ovvero ancora potremmo innamorarci di tutti? 
E ancora perché, per esempio, una persona considerata brutta se è meno sensibile dovrebbe soffrire di meno? O ancora al contrario una persona tenuta per bella e non sensibile apporterebbe "danni"? Perciò dovremmo solamente augurarci che bellezza e sensibilità coesistano nella stessa persona, ma ciò non si verifica sempre.Dobbiamo augurarci allora che gli elementi che non riusciamo a fare scomparire perché la società di massa costantemente impone siano quanto meno smussati, ma soprattutto recepiti in una sensibilità nella quale gli altri possano risultare inseriti.

 Lasciamo spazio ad una riflessione/discussione filosofica in merito:

                        Prof.: Sarebbe meglio vivere in una società di sensibili o di insensibili?
Silvia: Sicuramente di insensibili…
Prof.: ... però anche tu dovresti essere insensibile. Ma allora su cosa fonderesti il tuo piacere, il tuo essere? Nell’appagamento forse?
Silvia: E se uno fosse sensibile e insensibile a livello parziale?
Prof.: La situazione si complica, anziché semplificarsi, perché la parte sensibile e quella insensibile si dovrebbero poi incontrare o più spesso finirebbero per scontrarsi,  producendo problematiche di vario tipo.
Partiamo da un esempio famoso: si racconta che una modella abbia incontrato Einstein proponendogli di avere un bambino con lui, in modo tale da dare alla luce un figlio bello come lei e intelligente come lui. A questa proposta Einstein rispose che nel peggiore dei due casi, il nascituro sarebbe potuto essere anche bello come lui e intelligente come lei.

L’ideale dunque in una società varia o costituita da alquanti opportunisti o individualisti sarebbe di essere insensibili quando dobbiamo rispondere agli attacchi degli insensibili. Tanto rappresenterebbe una difesa, perché il soggetto conoscendo l’insensibile, possa opporre uno scudo.Meglio sarebbe però che si sforzasse  di farlo diventare sensibile, proiettandolo quindi in una società da costruire insieme e che possa reggere per dirla in termini classici evitare i marosi e ancora gli sbalzi della fortuna.

Anna  Chiara Benedetto, II C.
da una lezione del prof. Addona 

sabato 13 febbraio 2016

COME SI PENSA?
In Francia il filosofo è detto “maître à penser ”, che in lingua italiana generalmente tradotto come “maestro di pensiero”. Più bello, ma soprattutto più funzionale potrebbe risultare “Maestro a pensare”
Pensare, infatti, non smbra risultare affatto semplice. Quante persone infatti si trovano piùttosto, in assenza di elementi individuativi, piuttosto a “rimurginare” elemeti che non riescono a trovare una via di uscita e meno che mai magari un risoluzione.
Per poterlo fare nel modo migliore bisogna, quindi, innanzitutto chiedersi:”Quali sono gli elementi base del pensiero richiamato?”
Si tratta dunque:
1) Sforzarsi il più possibile per Identificare gli elementi,
2) aggiungere ad essi altri e  in primo luogo tentare di far emergere gli aspetti così che la situazione possa presentarsi nella maggiore effettività possibile. Recuperare le eventuali negazioni. Cambiare il punto di vista fino ad assumere quello degli altri.
3) Far scorrere quindi i vari elementi fermandosi ad intuirli laddove possibile. Lavorare sul tutto e di volta in volta valutare i vari elementi particolari alla luce della visione generale e delle altre particolari che di volta in volta emergono.
Altro aggiungetyelo voi e che vi sia profiquo il lavoro finalizzato a risolvere i vostri problemi o quelli di chi vi sta vicino!
Iadarola Laura IIC

Da una lezione del Prof.Addona

venerdì 15 gennaio 2016

SAPER IMPARARE... tra tradizioni, politica e cultura aperta

La grandezza di un popolo non dipende mai solo e soltanto dalle sue capacità in battaglia. Esistono dei criteri ideali che modellano non solo le abilità militari, ma anche i caratteri politici di chi governa e le idee condivise dai cittadini stessi. Un popolo si esprime una maggiore funzionalità rispetto ad un altro quando riesce a cogliere il meglio anche dal suo nemico, una volta sconfitto. Rimanere sordi e farsi scudo con un proprio orgoglio patriottico comporta un fallimento a prescindere.

Il più grande esempio di civiltà intelligente è incarnato sicuramente dai romani. Già il grande Sallustio lodava le qualità d’integrazione del suo popolo, citando il successo con cui gli antichi avevano assimilato il catalogo di armi sannitico, nettamente superiore a quello romano dell’epoca, o i costumi cerimoniali degli Etruschi, certamente più suggestivi e coinvolgenti. Era proprio questo atteggiamento di completa disponibilità ed attenta analisi oggettiva delle condizioni proprie ed altrui a favorire la crescita del popolo tutto.

E così, centinaia di anni dopo, ci sono anche i giapponesi a cogliere con perspicacia le giuste sostituzioni da fare nel proprio sistema politico e militare. Pure essendo stati amanti delle tradizioni e custodi ligi della propria storia e dei propri costumi, non esitarono a sostituire le proprie armi, decisamente più lente e meno funzionali, con quelle del nemico. Addirittura hanno sacrificato l'antica arte dei samurai che per tanti secoli avevano coltivato con capacità tali che ancora oggi è possibile ammirare in tanti film (esagerazioni sottraendo!). La polvere da sparo entrò così a far presto parte delle loro strategie militari. Avevano capito infatti che il grande guerriero non poteva reggere all'umile stalliere al quale fosse stato insegnato a premere il grilletto e a dirigere il colpo. Sostituirono alle loro potenzialità superate il modello napoleonico allora dominante. Ancora oggi ne è testimonianza l'utilizzo delle figure hollywoodiane nei videogame con la consapevolezza che risultano più affascinanti.

Per fare un esempio più concreto, mai avrebbe senso decidere di piallare una tavola di legno a mano, come qualche professionista grezzo vorrebbe da un falegname per ottenere un "antico" senza servirsi dello strumento adatto. Sapeva costui che i grandi artisti del rinascimento facevano sbozzare o abbozzare un'opera dagli aiutanti per poi intervenire quando ci si avvicinava all'obbiettivo? Sarebbe quello un gesto frutto di ostinazione ignorante! Bisogna quindi saper bilanciare le proprie azioni, analizzare le condizioni in cui ci si muove e agire di conseguenza. Non ci si deve mai intestardire e perseguire una sola strada, ignorando i cambiamenti che avvengono attorno a noi e sembra proprio questa quella che si configura come cultura aperta ovvero sia come l'unica cultura da inseguire. Anche Leopardi colse questo senso di moderazione, specificando che, nello studio, non bisogna mai esagerare ed isolarsi del tutto, bisogna esser stimolati ed aperti continuamente a nuovi interessi, ma anche disporre del tempo necessario per assimilare i contenuti immagazzinati. Un riposo sano e costruttivo. Un verificare le proprie e le altrui espressioni che emergono dal confronto e dalla riflessione. A cosa servirebbero a caso contrario i "viaggi d'istruzione"? 

Il senso dell’adattamento rientra anche in un discorso linguistico ed educativo. Imparare una lingua, ad esempio l’inglese in un liceo che si prefigge un compito culturale generale e non specifico, nei suoi più fini dettagli, assimilando dialetto, cadenze ed abbreviazioni che sono proprie di una cerchia ristretta di persone e di un territorio geografico molto limitato, non può sembrare sciocco? È inutile perdere ore ed ore sui dettagli infimi ed inutili. Imparare l’inglese ha la principale funzione di aprire le comunicazioni globali per queste persone, non quelle tra quartiere e quartiere.