martedì 4 maggio 2021

DIALETTICA STOICA E SISTEMA CONOSCITIVO

 

IL MENTITORE

EPIMENIDE CRETESE AFFERMAVA CHE TUTTI I CRETESI ERANO BUGIARDI

Appare evidente che Epimenide, essendo cretese, non possa che produrre una bugia. Da una tale sua posizione consegue, altresì, che l’affermazione da lui proposta dovrebbe risultare falsa: a derivarne sarebbe l’opposto di quanto espresso, ovvero che i cretesi non sono bugiardi. Da ciò il dilemma che, risolto da Russell, è stato emblematicamente delineato in termini simbolici da Cocchiarella. Il caso è stato, altresì, specificamente affrontato nel libro: Giuseppe Addona Percorsi di filosofia edito da G. Laterza Bari.

La risoluzione, da Russell prodotta, è stata resa possibile dalla posizione fuori dal sistema di colui che si esprime. Un cretese, dunque, non può affermare: tutti i cretesi sono bugiardi poiché a derivarne sarebbe il dilemma di cui sopra. Possiamo tuttavia aggiungere che anche Epimenide potrebbe risultare in una tale posizione esterna allora che, benché cittadino di Creta, non rientrasse oramai tra coloro ai quali applica un tale giudizio. Nel momento stesso che si rendesse conto che i suoi concittadini si siano rivelati bugiardi e che si indirizzasse su altra strada lo porterebbe a distinguersi, non appartenendo, a questo punto e sotto un tale aspetto, a una siffatta comunità, della quale enuncia un fatto. 

 

IL SORITE

Quanti chicchi di frumento occorrono per formare un soros ovvero un mucchio? Risulta evidente che un chicco non sia da ritenere un mucchio. Questo, infatti, è reputato un insieme di quelli ovvero costituito da un numero piuttosto grande e però non definito, così che l’aggiunta di un granello non appare né apportare né risolvere la concezione di esso mucchio. Il problema risulta incentrato sul passaggio non individuabile, così come accadeva a quella divisione già contemplata dal discepolo di Parmenide, né, altresì, denotativo di quel concetto. Un siffatto discorso rientra nella concezione che non può risultare definita per l’intervento di un elemento che vada ad aggiungersi agli altri, unitamente ai quali deriva una significazione ritenuta e però non tale da non richiamare altro che rappresenta l’aggiunta. L’insieme non arriva a costituire in alcun caso essa significazione. Per il resto, questa è necessaria alla comunicazione, la quale, benché risulti aperta, ovverosia tale da contenere quanto non recepito unitamente ad altri e per quanto questo stesso possa pervenire a configurazione intersoggettiva e che, in questo caso, risulta dalla ritenzione piuttosto comune, e però sempre parziale per quanto ampia possa delinearsi una convergenza sugli elementi posti in essere, pure risulta la condizione portante ancorché nei termini non interamente adeguati.

 

IL CALVO

Il discorso precedente vale per i capelli. Sottratto, infatti, uno a questi non porta a ritenere l’interessato da un tale fatto un calvo. Si può continuare così togliendone due o quanti si voglia. A non restare individuato è, anche in questo caso, il passaggio per il quale ad emergere possa essere il concetto, pure, per il resto, ritenuto. Questoè, infatti, non contempla una definizione netta. A non risultare interessata è, infatti, ancora una quantità data.

 

IL VELATO

Conosci colui che si avvicina con il viso velato? No. Se si scopre il volto lo conosci? Si. Conosci e non conosci, dunque, la stessa persona.

Per risolvere un tale “dilemma” appare sufficiente già l’individuazione aristotelica. Le configurfazioni si dispiegano, infatti, in un tempo diverso e per aspetti diversi. In un tempo t1 a presentarsi è una persona velata e in un tempo t2 quella che riteniamo la stessa, per gli elementi che permangono, con il viso scoperto. A restare è tuttavia il problema rappresentato dal legame, così come accade ogni qualvolta si tenta di attribuire un qualcosa ad altro, ovvero di far leva su una causa, fatto questo che non può essere intuito ovverosia colto come da Hume sarà constatato ed esplicitato.

A essere mantenuto fermo, in ogni caso, è colui che si ritiene lo stesso prima con il viso celato e poi scoperto.

 

IL CORNUTO

Ciò che non hai perduto lo hai. Ma non hai perso le corna quindi le hai.

In questo caso la risoluzione di quella che può essere reputata una antinomia si presenta piuttosto facile. L’uomo non aveva le corna e quindi non le aveva perdute così che queste possano continuare ad appartenergli. Il discorso risulta incentrato su una generalità nella quale è fatto rientrare un caso specifico. Si tratta di quello che è possibile ritenere un inserimento non appropriato e portatore del falso.

 

L’EMPIETÀ CHE CARATTERIZZEREBBE I SACERDOTI

Colui che rivela i misteri ai non iniziati è un empio. Il sommo sacerdote rivela i misteri ai non iniziati, dunque il gran sacerdote è un empio.

Il “dilemma” è portato dalla concezione ovvero, più specificamente, dalla mancata definizione sia di quelli che sono veicolati come misteri che di coloro che sono ritenuti gli interessati ai quali questi sono trasmessi. Una volta sono ritenuti misteri quegli elementi da non divulgare all’esterno e un’altra a fare da corrispettivo sono i cittadini ai quali un tale sacerdote si rivolge con un rito considerato legittimo. Quanto professato come atto, in primo luogo se non esclusivamente, in un tempio rappresenta, infatti, quello che di religioso al popolo è partecipato; nell’altro caso quanto deve essere tenuto lontano dalla portata della comunità intera, risultando riservato solo agli adepti.

 

IL TROVARSI O MENO DI QUALCUNO IN UNA CITTÀ

Se uno è a Megara non è ad Atene. Ma c’è un uomo a Megara quindi non c’è un uomo ad Atene.

Nel primo caso si tratta di un qualcuno indicato come tale ancorché, per il resto, non definito: tanto risulta dal pronome. Una stessa persona, infatti, non si trova insieme in una città e in un’altra. Nel secondo a risultare espresso è un nome denotante un genere. Uomo infatti è sia qualcuno che si trovi a Megara e sia ad Atene, fatto questo che non solo non è in contraddizione ma appare constatabile così che Socrate, in quanto uomo, potrebbe stare ad Atene e Aristocle, ancora uomo, a Megara.

 

 

IL TROVARSI O MENO IN CITTA’

Ciò che non è in città non è neppure nella casa. Ma non vi è un pozzo nella città quindi non vi è nemmeno nella casa.

In questo caso per pozzo in città si intende un pozzo visibile ovverosia presente in questa magari adibito ad uso pubblico e quindi collocato in una strada o in una piazza, fatto questo che si configura nella sua diversità rispetto ad un pozzo privato perché in una casa. Tra il privato e il pubblico, non risultando contemplato questo in quello, arriva a dispiegarsi una tale antinomia.

 

IL DILENMMA DEL COCCODRILLO

Un coccodrillo, che aveva rubato un bambino, promise alla madre di questo di restituirglielo se avesse indovinato la sua intenzione. La madre rispose che quello non l’avrebbe restituito. L’animale, che voleva tenerselo, a questo punto, si trovò di fronte ad un dilemma. In base al patto, tenuto conto che la madre aveva individuato le intenzioni di quello, avrebbe dovuto restituirlo. Restituendolo avrebbe però reso falsa l’affermazione della madre.

Il discorso si presenta di ordine filosofico ovverosia necessita di riflessioni perché si possa addivenire ad una riconduzione del problema ritenuto per secoli insolubile.

Proviamo a muovere dal coccodrillo rappresentante un riferimento. L’animale avrebbe potuto mangiare il bambino e invece pone in gioco un tale fatto disponendosi in una relazione con la madre del bimbo. Tanto significa già superare la semplice posizione precedente. Egli non può dunque non pensare, a questo punto, in funzione dell’altro riferimento, dalla madre costituito. Constatata valida la risposta, dovrebbe restituire il bambino. Diverso, invece, il discorso nel momento stesso che a essere assunto sia l’altro riferimento, dalla madre del bimbo costituito. Questa, però, dicendo il vero, sembrerebbe legittimare il coccodrillo a procedere in tal senso. In tal caso però a risultare annullata sarebbe la posizione di esso coccodrillo che aveva messo in conto la possibilità diversa costituita dal non tenere il bambino allora che la madre di costui avesse indovinato l’intenzione che, tuttavia, dobbiamo ritenere superata dalla comunicazione posta in essere.

Il discorso si presenta ancorato, dunque, a due termini. A dispiegarsi è quello che, altresì, potremmo reputare un sistema chiuso nel quale un passaggio tra quelli non è risolto. Ad intervenire è infatti una volta una esplicazione ed un’altra l’altra.

La madre del bambino, ritenendo che il coccodrillo volesse tenerselo, appare riferirsi all’animale che, già intenzionato a tanto, pure arriva a metterlo in discussione. Ciò a significare che la madre si riferisse alla prima intenzione di quello che però risulta messa in gioco. Da ciò dovrebbe derivare la conclusione.

Ove a valere fosse, dunque, la considerazione della madre, l’animale dovrebbe procedere in tal senso. In questo caso però a crollare sarebbe l’intero apparato dal coccodrillo posto in essere e incentrato sul primo riferimento. Una volta il discorso risulta imperniato sull’intenzione, che potremmo ritenere di base, ossia sulla natura del coccodrillo di tenere per sé quanto predato e un’altra sul discorso al quale pure esso coccodrillo si è affidato.


lunedì 3 maggio 2021

ARISTOTELE, I GRADI DELLA CONOSCENZA

 

La conoscenza, che secondo il pensiero di Aristotele comincia dalla sensazione, trova il suo coronamento nella scienza che è conoscenza in senso universale ovvero relativa all’essere in quanto tale e non a particolarità o ad accidenti. A subentrare alle sensazioni che potremmo ritenere semplici è la memoria, per la quale a formarsi sono le esperienze. Ad emergere poi, anche se non sempre in termini chiari e distinti, sono una tecnica e un’arte, la quale ultima spesso prende il posto della scienza.

Oggi, riteniamo, per lo più, che la tecnica sia un’organizzazione di esperienze non individuata nei suoi elementi portanti e, soprattutto, non insegnabile facendo leva su termini comprensibili perché affidati questi ad una ad una pratica. Una spiegazione, infatti, non può che far leva su fattori individuati e razionalmente collegati. Si parla di arte allora che si perviene a cogliere un qualcosa di ottimale se non di sublime facendo leva su termini, i quali, però, ancora non risultano interamente espressi. Noi riteniamo scienza, invece, quella conoscenza incentrata su termini misurati al punto che possa ripetersi il fenomeno riproducendo quei parametri, portati magari da regole anche più o meno complesse. Essa scienza è comunicabile e, quindi, insegnabile.

L’esperienza non corrisponde, comunque, alla scienza: da una serie di osservazioni può non emergere una spiegazione del fenomeno. Da essa possono derivare tentativi o anche spiegazioni particolari che però non escludono il caso che arriva ad interessarle in una parte molto ampia.

Si tratta, soprattutto nel caso di Aristotele, di individuare la differenza tra scienza e arte che però si presenta molto sottile e spesso sfuggevole. L’artista e lo scienziato appaiono differenziarsi in primo luogo per il fatto che l’arte è un’organizzazione, ancorché risolutrice e, possiamo ritenere, universale senza, però, una misurazione degli elementi. Questi, invece devono cessare di configurarsi quali variabili. Proprio un tale procedere va a connotare la scienza, la quale risulta incentrata su termini definiti e sulle relazioni osservate, a propria volta misurate. Aristotele arriva talvolta a sovrapporle o, più specificamente a scambiarle.

Questo filosofo, anche se intreccia spesso i termini, perviene a ritenere arte e scienza per l’universalità che esprimono al punto che i risultati non risultano aleatori o affidati al caso o ancora a una particolarità da esperienze portata. Egli considera la scienza come quella conoscenza dell’essere che muovendo dall’esperienza perviene a quella universalità per la quale non possono che risultare quegli effetti e non altri. Diverso il discorso incentrato su osservazioni che lascino fuori altro da cui, appunto, risultati non contemplati. Gli effetti, in questo caso, risponderebbero a congiunture.

Una lezione del prof. Addona riportata da Alice De Stasio, IC

È POSSIBILE DISTINGUERE L’INTELLETTO IN ATTIVO E PASSIVO?

 Per spiegare il passaggio da potenza ad atto ma, soprattutto e specificamente, per individuare l’intuizione nel suo esprimersi, Aristotele ricorre all’intervento di un intelletto attivo, che dovrebbe rappresentare la capacità di cogliere quanto in essere per una intuizione. Esso intelletto umano, sembrerebbe questa l’argomentazione di un tale filosofo, è constatato non operare sempre. È visto, infatti, intervenire talvolta ed altre non. Proprio da una tale non continuità ovvero da un non rivelarsi sempre presente sorge il problema: Per il fatto, dunque, che l’intelletto non agisca sempre sembrerebbe risultare negato un suo essere. Esso, infatti, che talvolta coglie il legame e il passaggio da qualcosa a qualcos’altro altre risulta assente. Ove rappresentasse un essere dovrebbe svolgere il proprio ruolo. A essere considerato sembra proprio quale un essere che però non può essere ritenuto tale poiché un essere non risulta solo a tratti per poi scomparire.

Al riguardo, però, basterebbe considerare l’uomo da sveglio e da dormiente. Trattandosi tuttavia di un qualcosa da venire a configurazione ovvero tale da esprimersi quale essere, Aristotele arriva a considerare un quid sul quale fare leva e tale da sostenere quell’operazione che non riesce a essere spiegata. L’uomo, infatti, non è ritenuto potere porre in essere alcunché potendo solo rappresentarsi una conoscenza a un essere corrispettiva. Non potendo affidarsi nemmeno a una potenzialità, poiché questa attiene all’essere, commette la spiegazione ad un intelletto attivo che viene, in una qualche modalità, in aiuto all’intelletto dell’uomo.   

Esso intelletto attivo sembrerebbe però acquistare una connotazione quasi divina. Superiore ed esterno a quello dell’uomo è considerato soccorrere l’altro per portare questo a essa intuizione. In una tale ritenzione Aristotele arriva quasi a comportarsi in un modo non diverso da Platone, pure condannato per avere posto in essere un inutile doppione costituito dal mondo delle idee rispetto a quello sensibile. Nel caso in esame, infatti, Aristotele, ancorché tentennante, appare comunque richiamare un’altra realtà anziché risolvere il problema concentrandosi solo sull’intelletto dell’uomo.                                                                                 

Noi moderni, riportando le considerazioni del professore Addona, potremmo ritenere che essa intuizione sia prodotta da quell’attività che riesce a collegare termini fino a farne emergere altri che, prima del loro comparire in una siffatta configurazione ovverosia intuizione, risultavano non noti. Proprio il dispiegarsi di quanto inseguito arriva a essere ritenuto portato da una illuminazione e specificamente per il fatto che a risultare evidenti sono le relazioni che forniscono una spiegazione di quanto prima, monco, si delineava, appunto, in una oscurità.

Se l’uomo, altresì, intuisse continuamente si avvicinerebbe alla posizione dalla quale un dio è reputato cogliere, in uno, il tutto. Al di là di tanto risulterebbe quell’uomo proiettato fino a comprendere i vari legami nel loro dispiegarsi, venendo in tal modo ad avvicinarsi a quella condizione superiore.

Non, dunque, per mezzo di un intelletto esterno un intelletto passivo sprigiona le sue potenzialità. È essa attività, quale pensiero, che perviene a risolvere i legami tra termini presenti e richiamati fino a essere rappresentati in quella che si dice intuizione e da tenere distinta da quella dai fenomeni rappresentati nello spazio e nel tempo così come da Kant ritenuta.       

INTELLIGENZA ARTIFICIALE E PENSIERO

 

Allora che per intelligenza si intenda la capacità a collegare appare evidente che un programma possa essere predisposto così che, dati alcuni parametri, a conseguirne possano essere termini, ovverosia relazioni richiamate perché rispondenti ad un tutto già approntato. Il discorso non muta allora che al posto di una base, che possiamo ritenere fissa, si inserisca la possibilità di elaborazione della stessa. Tanto a dire che un programma può procedere in quella che possiamo ritenere una ricomposizione di se stesso. Questo non può avvenire che ancora per parametri impostati. Diverso il discorso che riguarda esso pensiero il quale appare esprimersi oltre tutto ciò.

Cosa rappresenta dunque un tale pensiero? Potremmo rispondere: la possibilità di spingersi, quale attività, oltre tutto quello che è stato programmato. Se anche tanto appare, in ultimo, interessare una intelligenza artificiale, pure, esso pensiero arriva a distinguersi per il fatto che essa attività che esprime risulta ancorata ad un soggetto che si dispiega ponendosi rispetto agli altri come pratica da un universale discendente. Anche un tale discorso, tuttavia, potrebbe essere impostato e però da esso pensiero, il quale, in questo caso, verrebbe a connotarsi specificamente quale ragione. Questa, infatti, si trova a fondare e ad esprimere se stessa in quella generalità da cui la restante parte non può che dipendere.

Esso si presenta come quel qualcosa che, non definito se non da se stesso, giunge a configurarsi come principio che riesce a riconfigurarsi e, nello stesso tempo, a riconoscersi nei suoi stessi mutamenti, ovvero sviluppi, risultando di tanto consapevole, così come elemento anche in una corresponsione con un essere che perviene in siffatti termini a pensare. È il pensiero a disporre se stesso e a produrre, quindi, tutti gli eventuali programmi che da esso prendono inizio sia a livello teoretico che, soprattutto, pratico. Anche allora dunque che un programma fosse tarato per rifondare se stesso si troverebbe a rispondere a quell’impostazione di base da esso pensiero costituita e posta in essere. Da una programmazione, anche aperta, a non emergere sarebbe quel qualcosa che, non definito da alcunché se non da se stesso ancorché in risposta a termini che arrivino a dispiegarsi, non condurrebbe a ciò da cui comunque si trova a dipendere. Si tratta di essa attività rappresentativa, appunto, si esso soggetto che non è fissato da altro, diversamente da quanto accade ad un programma complesso e proiettato per reimpostarsi quanto si voglia.

Questo potrebbe riconoscere sia se stesso che uno sviluppo non ancorato su termini che possiamo ritenere primitivi potendo procedere su ciò che, via via, venisse a dispiegarsi e però anche tanto non potrebbe che rispondere all’impostazione per la quale è stato avviato per percorrere una tale strada. Il suo stesso riconoscimento non può esulare dai termini dai quali si è mosso. In caso contrario a irrompere, fino a fa far scoppiare l’intero sistema, sarebbero sdoppiamenti che non consentirebbero più un riconoscimento. Esso, in ultimo, sfuggirebbe a se stesso.

Il pensiero, che non procede, dunque, né solo su variabili né su costanti ma su quanto riesce ad esprimere in una libertà, risulta consapevole di se stesso e dell’approdo cui, di volta in volta, perviene, senza cessare, quindi, in quella sua identità ancorché dinamica per quanto arriva a dispiegare nella sua stessa evoluzione. Essa attività si riconosce nello stato in cui è approdata costituendo e comunicando esso soggetto. Tanto sia a livello teoretico, per ciò che arriva ad esprimere al punto da risultare non solo riconoscibile ma tale da fare da riferimento ai termini che va a collegare e, quindi, ad attribuire, e sia e soprattutto quale elemento di quella umanità universale, portante non solo un sistema ma quell’essere per il quale esso pensiero, come ragione, si riconosce e reputa di essere conosciuto. Quella, che non risulta confinata, pure si esprime come libertà che scientificamente giunge ad essere colta. Per un approfondimento della tematica si rinvia al mio lavoro La determinazione sociale dell’individuo eDimedia, liberamente consultabile sul sito giuseppeaddona.tripod.com

Ove un programma riuscisse ad esprimere tanto arriverebbe a pensare una libertà non però a fondarla e a farla rivivere dandole quell’essere incentrato su un soggetto tra soggetti. Essa libertà, dunque, così come principio, non può che derivare da quel soggetto che arriva ad avviare anche un tale programma.

A tanto si aggiunge quel sentire generale, il quale, benché possa magari, a propria volta, risultare programmato, prende il suo essere da quella sensibilità che connota l’uomo che avverte l’universalità fino a porre in essere unitamente alla ragione quel soggetto. È questo che dà l’avvio a quel processo che può anche essere predisposto ad avanzare su una via autonoma e che però è stata prevista da quel soggetto che ha affidato a essa “intelligenza artificiale” un tale compito che può proiettarsi fino a tracciare nuove strade e però controllabili da colui che lo ha avviato. In caso diverso potrebbe, un tale sistema, trovare elementi e però tali da rappresentare non quel soggetto che si pone in essere per quella generalità nella quale ritrovare gli altri. Fuori da tanto e oltre tanto a presentarsi possono essere termini rispondenti, però, ad un individuo quando non ad altro ancora.

Essa intelligenza artificiale, ove in contrapposizione, porterebbe alla scomparsa di quell’essere uomo dal quale è stata costruita per rispondere ad esigenze alle quali non può che sottostare quell’universalità per la quale si può parlare di umanità ovvero di soggetto in rapporto per essa ragione e per essa sensibilità.