sabato 16 dicembre 2017

Picasso, genio o semplice adulatore?

Proviamo ad analizzare il celebre quadro “Guernica” ispirato al bombardamento prodotto da aerei tedeschi, in appoggio alle truppe del generale Franco contro il governo legittimo repubblicano di Spagna nell’ omonima città. Picasso, con il suo estro, riesce a riportare gli avvenimenti in maniera fortemente realistica anzi marcata al punto da dovere indurre all’orrore con le spezzettature e le deformazioni delle figure, a cominciare da quelle più emblematiche e familiari al popolo spagnolo. C’è un particolare, tuttavia, che dobbiamo considerare. Il pittore, infatti, nonostante non fosse presente all’ accaduto, decide di dipingere questo quadro, probabilmente perché si rese conto che la creazione di questa opera relativa ad un evento di siffatta portata avrebbe non solo interessato un pubblico mondiale, ma probabilmente creato intorno alla sua figura la fama che lui attendeva da tempo. E’ proprio questo aspetto che forse arriva a rappresentare le vere motivazioni di Picasso, il quale più che denunciare un accaduto significativo e brutale per la storia e la società spagnola decide di far leva sull’ ignoranza dei suoi estimatori ammaliandoli con un’opera priva di contenuti stilistici di alto rilievo e realizzata con un senso logico inappropriato e inadatto ad un artista che pure puntava ad una fama e godeva di un certo prestigio.

Proprio quella che voleva essere un’opera impostata di getto ed in un modo alternativo, è vista invece essere prodotta quale un trittico camuffato nemmeno molto. Le figure sono ribaltate intorno all’asse che divide proiettandole quasi avessero vittime di quell’esplosione che si accingeva a raccontare figurativamente. Da una somma di elementi mozzafiato, non emerge tuttavia quel raccapriccio che pure si era prefissato di comunicare. Tanto per far presente come alcune opere considerate capolavori non si rivelano che una mediocrità o forse anche meno. Resta comunque il discorso incentrato sugli approcci particolari che però non possono non tenere conto degli elementi intersoggettivamente portanti.

Articolo stilato da Domenico Maria Supino, II C, muovendo da una lezione del prof. Addona.

domenica 4 giugno 2017

LO SCETTICISMO: SESTO EMPIRICO

Anche la matematica, ritenuta dai Greci una scienza da potere essere insegnata, arrivò, almeno con Sesto Empirico, ad essere messa in dubbio. La scienza, fondata come è sull’induzione e sulla deduzione, arrivava a fare leva sul concetto di causa che però quello reputava non potersi applicare.

 Proviamo ad addentrarsi in un tale problema: Appena affermiamo qualcosa, leghiamo qualcosa a qualcos’altro. Si tratta di considerare l’enunciato. Bisogna rilevare il legame presente nell’enunciato. Bisogna “dimostrare” che Socrate è un animale razionale. Tenuto conto che si è pervenuti a tanto considerando Socrate uomo, l’indagine non può non interessare la premessa e quindi l’inserimento del termine in questa. Uno stesso problema appare investire sia la costruzione della premessa che comunque non può contemplare tutti i casi così come pure espresso dal funtore universale e sia la sussunzione. Quali infatti gli elementi per ritenere che Socrate è uomo? Quelli osservati e accomunati sotto un concetto da cui una specie? Si tratta comunque di rilevazioni e di accostamenti ancorché una tale visione sia frutto piuttosto dell’era moderna anche se una tale problematica non era sfuggita alla stessa antichità. A risultare applicata a un rapporto, in ogni caso ritenuto, è altresì una causa la quale non riesce a trovare una via per risultare legittimata.

Costruire dunque una induzione e legare, quindi, termini implica una operazione che chiede di essere giustificata. Il legame, in ogni caso, non è intrinseco. Già rispondere alla domanda: “cos’è un ragazzo?” implica un mettere insieme caratteristiche con le quali non si perviene ad una sostanza fatto questo ampiamente constatato da Aristotele.

Cogliere una causa significherebbe rilevarla in atto, fatto questo che non appare possibile per il fatto stesso che un effetto è ritenuto conseguire e recepito dunque fino però solo ad essere accostato. Un tal discorso porterà avanti emblematicamente Hume. Se in atto è essa causa, proprio per questo non può nello stesso tempo risultare l’effetto; ove tanto si desse ad emergere sarebbe esso insieme e colto unitamente a tutto quanto si dispiega neutralizzando esso tempo con quanto ritenuto da questo dipendere così come portato nella sua concretezza. Quando, altresì, a dispiegarsi è l’effetto non c’è più la causa. I due elementi restano esterni. Come si possono collegare, dunque, causa ed effetto? Non risulta possibile non potendosi dispiegare così come emerso. Eppure essa causa appare continuamente usata anche in scienza. Tanto in primo luogo sembra avere aperto la porta a quello scetticismo.

Applichiamo ora un discorso simile agli elementi ritenuti fare da principio e ad una deità. Se tutto quello che c’è deriva da acqua, aria, terra e fuoco, e se c’è un dio o quelli derivano da questo o il contrario. Del principio non può darsi dimostrazione alcuna, fatto questo che Aristotele aveva fatto emergere, non essendoci altro sul quale potere fare leva per la derivazione. Ad una dicotomia si perviene altresì non appena si vogliano ammettere più principi i quali, in quanto tali, si escludono a vicenda, non potendo appunto uno rientrare nell’altro.

Allora che a essere ammessi sono elementi diversi, più specificamente, incompatibili per nature assunte, quali un umano ed un divino a necessitare sono due piani così che i termini non pervengano a contraddizione. Se ci fosse un dio e vivesse nel mondo constatato, dovrebbe essere rilevato con gli stessi strumenti rappresentati dai sensi. Anche quello, così quale corpo, dovrebbe avere sensazioni e provare, quindi, piaceri e dolori. Se risultasse interessata da piaceri e dolori non si differenzierebbe dagli altri corpi animati e quindi non sarebbe più un dio. Se coraggioso, come da presupporre, dovrebbe avvertire anche la paura. Di un principio, dunque, nulla può dirsi potendo valere sia una considerazione che il suo opposto come Kant farà emergere a proposito della dialettica trascendentale. Se non alcunché, dunque, può essere sicuro, pure muovendo dalle condizioni del soggetto appare possibile ritenere per queste quel qualcosa con una validità da tanto derivante e che arriva ad essere supportata empiricamente da un esterno che è visto avvalorare o negare quanto scientificamente prodotto.

Articolo stilato da Francesco D’Andrea, I C da una lezione del prof. Addona

IL VARIARE DELLA CONCEZIONE DI CORAGGIO

il termine coraggio sta ad indicare al giorno d'oggi piuttosto una mancanza di paura e, dunque, quasi una non coscienza del pericolo che incombe su chi si accinge a compiere un’azione nella quale potere perdere anche la vita. Coloro che non hanno percezione né idea alcuna del pericolo che stanno correndo, quali ad esempio bambini che infilino le dita nella presa elettrica, non possono ritenersi coraggiosi ma semplicemente incoscienti. Quelli che venissero uccisi da una bomba, all'improvviso, in un posto X senza esserne consapevoli, devono essere definiti vittime. In costoro, infatti, non è presente quella consapevolezza di operare o di trovarsi in un luogo nel quale tanto possa capitare e tuttavia affrontato per un dovere universale quando non verso una società ed uno Stato. Appare evidente che perché una morale si dispieghi necessiti quello scarto tra quanto possibile ottenere come vantaggio e il rifiuto di esso per la generalità verso la quale si tende. Nel caso di un incendio vasto e devastante se qualcuno si tuffasse a salvare qualcuno in cambio di una cifra magari molta alta e non per quell’umanità per la quale sia pronto a mettere in pericolo se stesso per salvare in primo luogo anziani o bambini non potrebbe essere considerato eroe. Il vero coraggio non può che risultare sganciato da interessi materiali, dovendo rappresentare una virtù da cui la stessa ammirazione da parte di chi si trova a valutare un tale gesto. Si tratta, dunque, sia della conoscenza del pericolo che incorre e dei rischi che questo comporta fino a superarlo per posizionarsi su quella universalità dalla quale il soggetto. Diversa dunque la valutazione interessante soldati in battaglia consapevoli di potere morire e di altri ancora che varcassero le linee nemiche per produrre un’azione a vantaggio del proprio esercito e dello stato di cui si sentono cittadini. In quest’ultimo caso la fine non è silo calcolata ma si procede incontro a quella che può essere, nell’altro, la cessazione volontaria del proprio esistere. In un mondo nel quale a regnare è per lo più un’assenza di valori si tende a “valorizzare” ogni elemento utile per disporsi almeno per un momento fuori da quell’individualismo che alla fine solo abbrutisce.

Utilizzando, dunque, il termine “eroe” in un modo non consono, dando una concezione deformata al sostantivo, si perde la concezione storica di questa parola, giungendo ad accomunare, fatto questo che significa falsificare la sua significazione. In termini diversi: Quando la parola eroe arriva ad accomunare Achille, Ettore, Muzio Scevola a tanti altri a coloro ai quali, incidentalmente, per citare un caso estremo, sia caduta magari una tegola in testa per il forte vento significa indirizzarsi ad un disorientamento dal quale a derivarne non può essere sviluppo critico alcuno dal quale una società non può, in ultimo, che dipendere.

Una lezione del prof. Addona riportata da Chiara De Mizio, I C.

mercoledì 24 maggio 2017

IL TIMORE DELLA MORTE E’ IMMOTIVATO

Epicuro invita gli uomini a liberarsi dal timore della morte che arriva a costituire per costoro il problema, appunto, più rilevante. La sua etica risulta imperniata sulla liberazione dagli assilli. Il suo procedere appare incentrato su una riflessione dalla quale deve derivare quella conoscenza idonea a scoprire gli errori. Egli muove dalla constatazione che la realtà risulti per un percepire dai sensi, appunto, portato. Finché si è in vita si avverte. Va già da sé che nel momento stesso che si cessa da una vita ovvero si muore a venire meno sono propriamente esse sensazioni. Si tratta di fare emergere, quindi, gli elementi da riferire.

Quando si è vivi ci si preoccupa per la morte e non si gode la vita. Nell momento stesso però che si comprende che con la morte cessano le sensazioni essa non può essere avvertita e, dunque, è da stimare quale un niente. Risulta così che si possa godere, finché possibile, essa vita senza preoccupazione alcuna di quella. Sbaglia colui che pensa di vivere in eterno e allora che capisce che tanto non potrà accadere si rammarica. Angustiato da un tale fatto non vive con quella tranquillità. Proprio però la consapevolezza che il tempo in cui si dispiega essa vita non è eterno deve portare a godere di ogni istante. A dispiegarsi è, in questi termini, una vita appagata alla quale non fa paura una morte che come già emerso non può essere percepita. Assurdo risulta dunque il temere una cosa che non può provocare dolore. Quando ci sei tu essa non c’è e viceversa quando c’è la morte non ci sei tu. A restare è il problema costituito propriamente dalla correlazione ovverosia dal passaggio. Argomento questo affrontato nel lavoro consultabile liberamente sul sito Giuseppe Addona “Percorsi di filosofia” Edimedia. Uno degli altri farmaci che fornisce è costituito dalla liberazione dal dolore: I mali o sono forti e recidono una vita così che non risulta possibile, alla fine, avvertire dolore, o sono tali che ci si abitua. I piacere vanno altresì considerati in dodo che non possano da essi derivare dispiaceri maggiori. Si tratta di organizzare, dunque, al meglio essa vita per goderla con quanto meno fastidio possibile e dunque con il massimo piacere. Ci possiamo chiedere a questo punto se una tale gestione debba interessare anche gli altri e quindi una società o il discorso resti ancorato all’individuo come sembrerebbe verosimile da quanto emerso. Da tenere conto è che essa società si trova ad intervenire e ad incidere, quindi, sulla vita di esso esistente così che la ricerca appare da doversi ancora portare avanti.

 Articolo stilato da Francesco D'Andrea, I C. da una lezione del prof. Addona

EPICURO
Epicuro nacque nel 341 a.C. a Samo, cominciò a preoccuparsi di filosofia a 14 anni, fu discepolo di Platone al quale pensiero unì anche quello di Democrito.  A 18 anni si recò ad Atene dove assiste alle lezioni di Aristotele. a 32 anni si trasferì a Lesbo dove iniziò l’attività di maestro e tornato ad Atene, vi rimase fino alla morte.

Epicureo fu autore di molti scritti, dei quali ci restano solo tre scritti, la prima è una breve esposizione di fisica, la seconda di contenuto epico e la terza tratta di questioni mitologiche. 

                                                                                                        -Francesco D'Andrea, I C.

UNA REALTA’ STORICA PERVIENE A FORNIRE UN INDIRIZZO ALLA RICERCA

Nell’età ellenistica la cultura inizia a settorializzarsi, fatto questo che può essere letto sia in “negativo” che in “positivo”. Platone aveva iniziato a filosofare convinto di dover fare politica e prendere in mano, unitamente ad altri, la situazione della città. Aristotele era già consapevole che la politica non dipendeva da lui. Il ruolo del cittadino è stato assunto da altri a cominciare da Alessandro Magno. Lo stato più ricco e potente con l’ingresso dei macedoni-greci, in questo periodo, è l’Egitto e la città di Alessandria diventa il centro culturale dell’epoca. La quasi totalità degli scienziati si trasferisce in questa città. Alla specializzarsi appare fare da contrappunto quella visione generale che aveva caratterizzato il periodo precedente. La cultura si sposta nella biblioteca allontanandosi sempre più da quel cittadino che Socrate, innanzitutto, chiamava continuamente a partecipare. La filosofia, che prima inglobava quasi tutte le discipline tranne, in primo luogo la medicina, lascia il passo ad alquante scienze che iniziano a percorrere una strada piuttosto autonoma. Anche la tecnica comincia a separarsi dalla scienza; la prima si occupa della parte pratica, l’altra della teoria.

 Una lezione del prof. Addona riportata da Francesco D'Andrea, I C.

 

LA POETICA
Aristotele prende in esame i tipi di arte del tempo considerandole imitazioni, ma o imitano i mezzi o imitano le cose o le modalità. Due sono le cause che hanno dato origine alla poesia: l’imitare è un’istinto della natura degli uomini e l’imitazione del linguaggio per comunicare. 

                                                                                                   -Francesco D'Andrea, I C.

E’ POSSIBILE UNA POLITICA RISOLUTRICE?

Aristotele non si configura uno stato ideale ma osserva gli stati in atto e trova che esistono alcuni sono monarchici, altri tirannici, altri ancora aristocratici e quindi, oligarchici, democratici e demagogici. Egli rileva che ogni stato allora che si forma è positivo. Esso, dobbiamo ritenere, dà spazio, infatti, a ogni persona che trova nella comunità il proprio bene che insegue con le azioni che nello stato porta avanti. Lo stato è, dunque, la comunità più grande e importante. Aristotele è convinto che lo stato non abbia bisogno di altro per vivere ovvero per esistere come tale e ha come funzione di rendere possibile la vita. Lo stato esiste per natura così come le comunità esistono per natura. L’uomo è, infatti, per natura un essere socievole.

Lo stato monarchico si forma perché qualcuno che diventerà re è il migliore e gestisce in funzione di tutto il popolo. I figli di costui, invece che nascono già in una reggia senza aver fatto sacrifici, pensano pian piano che sia un proprio diritto e usano quel potere derivante dalla situazione venuta a crearsi per motivi personali facendo transitare esso stato nella tirannide. Gli aristocratici, ovvero i migliori e dobbiamo reputare a questo punto i virtuosi che hanno a cuore il bene comune, non possono sopportare un tale fatto e fanno il sacrificio di allontanare, rischiando anche la vita, il tiranno di turno, liberando, così, la città. Quando i figli degli aristocratici prendono il potere, sperperano per loro stessi svolgendo quel ruolo già caratteristico dei figli del tiranno. Il popolo, a questo punto, si ribella e prende potere. Inebriato dal potere reputa di potere ostacolare i maggiorenti e appropriarsi in una parte quale che sia dei beni di questi. Aizzato, altresì, cade nella demagogia a sollevarlo dalla situazione nella quale è finito è qualcuno che per la sua virtù arriva a svolgere le funzioni di re e così il ciclo è visto ripetersi.

È possibile, viene da chiedersi, spezzare questo circolo? A essere viste alternarsi sono virtù e quelli che possiamo ritenere vizi fino a porre in essere tra stati corrispettivi alle une e tre agli altri. A fronteggiarsi sono, in ultimo una virtù e la sua degenerazione e però in coloro che non hanno prodotto per pervenire ad una situazione politica. Tenuto conto che a essere stata rintracciata è una causa rappresentata da un godimento di situazioni di fatto si tratterebbe, da parte dei virtuosi, di far percorrere ai rispettivi figli quel percorso formativo ovvero farli passare attraverso i sacrifici. Tanto implica una consapevolezza e una forza da parte dei governanti sino, dobbiamo ritenere, a scoprire il carattere dei loro discendenti per fare in modo che quanto ha rappresentato una loro conquista non degeneri, fatto questo che implicherebbe il loro stesso fallimento. La grandezza di un uomo sembrerebbe, a questo punto, consistere nel sacrificio di giudicare i figli senza offrir loro quello che non appare meritato. Un tale discorso era stato affrontato da Platone a proposito dei filosofi che dovevano avere il coraggio di avviare ad una classe d’argento o di bronzo quelli che non erano conosciuti quali uomini d’oro. Quanti genitori oggi appaiono disposti a riconoscere i meriti di giovani che sopravanzano quelli dei propri figli?

Una lezione del prof. Addona riportata da Francesco D'Andrea, I C.

L’ETICA

L’etica è considerata in genere come quel tendere ad una dimensione che richiede un grande impegno quando non sacrifici, quasi si trattasse di un’altra realtà da raggiungere senza che ad esserne scoperti siano i risvolti. Aristotele era, tuttavia, già convinto che tutto l’agire umano fosse rivolto ad un fine da un bene rappresentato. Lo stesso bene sommo non si trova in un altro mondo, ma in questo e perviene ad essere identificato nella felicità. Per i filosofi antichi la felicità consisteva, in genere, per l’uomo nel riuscire a realizzarsi al meglio.

L’etica e la politica hanno entrambe come bene sommo la felicità. Per l’etica, però, questa risulta individuale, mentre per la politica riguarda la collettività. Se la felicità è rappresentata dal fine specifico dell’uomo, pure a variare sono gli obiettivi da un individuo ad un altro. E’ lecito ancora parlare di uomo in generale? La stessa considerazione di felicità non risulta dunque unica. Una persona che trovasse il proprio appagamento nell’alcol potrebbe sentirsi felice ubriacandosi per una vita. Simile il discorso allora che a essere considerati fossero obiettivi diversi. La considerazione di felicità dipende dalle particolari visioni, da una parte, e dall’altra dal giudizio prodotto da altri senza però che questo possa inficiare quel comportamento e quella ritenzione. Ad una valutazione può tuttavia emergere che colui che si inebria pure è in relazione con altri oltre che con ciò che consenta a lui di procurarsi quel materiale. Da valutare sono altresì i risvolti. È possibile esplicarsi in uno stato di continua ebbrezza? Ove tanto non risultasse ad emergere sarebbero i risvolti da valutare al punto che a essere chiamato in causa sarebbe l’insieme. Tanto a prescindere ancora dalla relazione tra quanto possiamo ritenere attenere a una vita vegetativa, ai sensi correlata, e soprattutto a una visione o, più specificamente, a una realtà portata da una ragione, con un intelletto quale strumento ovverosia capacità a cogliere individuazioni e ad apportare accorgimenti perché un obiettivo possa essere raggiunto. Una virtù, dunque, non risulta avulsa da una ragione né indirizzata a qualcosa di aleatorio o di teorico quasi rappresentasse una evanescenza o anche un niente.

Si tratta di riconoscere, quindi, quanto arrivi a rappresentare il meglio. Se i beni possono rappresentare un mezzo che faciliti il raggiungimento della felicità, non possono però determinarla. Questa, infatti, per Aristotele è vista dipendere da altro ovvero da quella capacità atta a cogliere quanto risulti il più funzionale possibile per un uomo che si esprima per determinate caratteristiche coniugate con quanto arriva ad esprimere in una società. Una tale connotazione arriva a rappresentare quella parte sulla quale interviene la ragione. Se una virtù, quella morale, si trova a dipendere dai costumi, quella razionale consiste nella capacità di elaborare. Eppure la ragione riesce ad individuare quanto possa risultare valido muovendo dalla situazione economica e politica che arriva ad interessare un uomo. Ad un politico ammirato e in possesso di un patrimonio vasto conviene l’essere magnifico. Non può permettersi invece di spendere molto per il pubblico colui che o non avesse risorse a sufficienza o non svolgesse un ruolo politico adeguato. Si tratterebbe in questo caso di muoversi impropriamente quale un liberale e quindi fuori da quanto constatato valido da essa ragione che arriva a valutare i vari comportamenti posti in essere.   

Né appare trattarsi, per Aristotele di quel giusto mezzo pure ritenuto e però non quale a metà, e statico che potrebbe essere indicato dall’espressione “in media re”, ma “in medias res”, ovvero rintracciato in quel dinamismo. La liberalità, infatti, non è a metà tra la magnanimità e la tirchieria, ma più vicina alla prima. Essa si presenta comunque lontana da quell’avarizia ritenuta negativa. Liberale e magnanimo sono entrambi positivi.

 

Da considerare è, altresì, il piacere, come già per Platone, di potersi raffrontare con qualcuno che prenda in considerazione colui che si propone e al quale potere trasmettere le proprie emozioni e ricevere un messaggio di ritorno. Anche rapporti di tal fatta vanno valutati.  Ad emergere è che i bambini e anche i giovani sembrano amici di tutti ed invece sono visti dimenticare i vecchi compagni di giochi sostituendoli prontamente con i nuovi. Essi si realizzano puntualmente nel luogo dove si trasferiscono con i loro genitori. I rapporti di costoro non sono profondi né fondati, possiamo aggiungere, su virtù. Costoro sembrano muoversi quasi da egoisti ponendo il gioco al primo posto con gli altri che sono considerati necessari perché tanto avvenga. Gli anziani sono ritenuti da Aristotele i peggiori. A costoro non interessano le vicende altrui ma tendono solo a raccontare le proprie. Gli altri vecchi servono solo a sostenere il sé degli altri. Anche l’amicizia vera è quella tra persone mature fondata, questa volta, sulla ragionare comprendendo così quanto possono dare prima ancora di considerare un corrispettivo da ricevere. Analogamente anche l’innamoramento ha bisogno di ragione, altrimenti risulta affidato a quanto non controllato in alcun modo, può alla prima occasione prendere una via qualsiasi e diversa quando non opposta a quella sulla quale pure ci si era, con la più grande passione e speranza, incamminati. A condizionare, in tal caso, sono i vari elementi sui quali quello si regge senza che ad intervenire possa essere quanto ulteriormente supportare. Tanto il professore Addona affronta specificamente nel libro “Sensibilità e ragione” Bonanno editore.

Una lezione del prof. Addona riportata da Francesco D'Andrea, I C.

SENSO COMUNE E SOGGETTO A PARTIRE DALLA CONOSCENZA COSI’ COME CONCEPITA DA ARISTOTELE

Per Aristotele la conoscenza muove dai cinque sensi ai quali aggiunge un senso comune. A questo attribuisce una funzione duplice: quella di rappresentarsi le sensazioni e la coscienza che, come sembrerebbe, pervenga a costituire il riferimento di queste. In caso diverso a mancare sarebbe proprio il soggetto. Chi percepisce? Come potrebbe una sensazione correlarsi alle altre e risultare organizzata in funzione di qualcosa? Quel sentire, che possiamo considerare comune, arriva a rappresentare esso esistente per il quale a essere poste in essere sono, in ultimo, le azioni. Si tratta dunque di riconoscersi come elemento incentrato su una unità. Proprio un tale riferimento arriva a rappresentare il termine in rapporto con gli altri fino ad essere riconosciuto in quel suo proporsi per l’organizzazione che arriva a essere reputata affidabile e sulla quale fondare le relazioni fino a costituire una dimensione per la quale una validità.  

Una tale condizione risulta ancora necessaria allora che al di là della sensazione percepita, ovvero in atto, si tratta di riconoscere quanto è stato e portato da una memoria, ancorché questa stessa possa configurarsi a propria volta come percezione. A mancare appare però ancora prorprio quel riferimento per il quale il tutto perviene a consapevolezza. Discorso questo che risulta più evidente allora che a risultare interessata sia l’intuizione. Allora che qualcosa venga recepito in un certo tempo e non in altro a restare è proprio essa facoltà che si riconosce non incentrata su un termine. È ancora essa a collegare gli elementi richiamati per porre in essere quanto non appare presentarsi semplicemente ma necessita di sforzo per essere portato alla luce. Perché tanto non è stato prima intuito? Aristotele a questo punto si vede costretto ad ammettere un intelletto attivo accanto a quello passivo non pervenendo ad attribuire potenzialità ad esso riferimento come facoltà. Rappresenta questo un problema dalla portata enorme. Si tratta, infatti, di ricondurre quanto non è ancora a quel soggetto pensante che però non dispone ancora degli elementi sui quali applicare esso pensiero. Solo in tali termini quanto considerato non in essere può essere riportato all’immanenza e però data da un soggetto e non da un essere che possa presentarsi di fronte. Su quello risulterebbe fondata ora essa realtà, fatto questo che rappresenterà una conquista dell’età moderna con la dimensione che arriverà a dispiegarsi su esso soggetto. Proprio la non risoluzione di quanto di fronte ritenuto reale e esso intelletto conduce a considerare una potenza e un atto. A non risultare spiegato è comunque il passaggio nell’atto stesso di esprimersi, fatto questo che rappresenterebbe un corrispettivo della problematica legata al concetto di causa.

Lezione del prof. Addona riportata da Francesco D'Andrea, I C.

TRE TIPI DI ANIME
Aristotele era convinto che ci sono tre anime: vegetativa, quella che fa muovere e fa vegetare tutti gli alberi e le piante le quali vivono, ma vegetano perché non sentono né intelligono; sensitiva, quella che Aristotele attribuisce a tutti gli animali che sentono; la funzione intellettiva che è propria dell’uomo ed è l’anima razionale. L’uomo ha tutte e tre le anime, perché vegeta, sente e ragiona.

                                                                                                                                                    -Francesco D'Andrea, I C.

LA DIALETTICA

Il discorso che arriva a riguardare il passaggio da un enunciato ad un altro si presenta nella sua più che problematicità proprio per ciò che attiene a un tale transito. Mentre per Platone una conoscenza sulla dialettica incentrata interessava ciascuna idea non facendosi leva che su ciascuna di queste senza che a necessitare fosse alcunché di diverso ossia di sensibile così che a derivarne fosse la conoscenza per eccellenza, per Aristotele la dialettica è ritenuta l’arte di produrre discorsi organizzati per ottenere effetti. A essere immesso è un non vero che risulta corrispettivo di quello che, sotto altro versante, si presenta quale un errore. Si tratta, dunque, di inserimenti volti ad ingannare. Il filosofo che si indirizza a fare emergere quelli che possono essere considerati trucchi deve cimentarsi in una tale ricerca fino a comprendere, oltre che a produrre a scopo teoretico, i ragionamenti ingannevoli. Sarà Hegel che considererà la dialettica quale passaggio oppositivo posto in essere dalla ragione rappresentante propriamente la realtà.

Lezione riportata da Francesco D'Andrea, I C.

lunedì 27 marzo 2017

Riflessioni su una concezione finalistica della natura

Ma nasce un dubbio: che cosa vieta che la natura agisca senza alcun fine e non in vista del meglio, [A essere affrontata da Aristotele è una concezione finalistica di quella che è ritenuta una natura] bensì come piove Zeus, non per fare crescere il frumento, ma per necessità (difatti ciò che ha evaporato, deve raffreddarsi e, una volta raffreddato, diventa acqua e scende giù: e che il frumento cresca quando questo avviene, o un fatto accidentale)? [Aristotele sembra procedere muovendo da un assunto constatato tuttavia attraverso varie esperienze e relazioni prodotte] E, parimenti, quando il grano, poniamo, si guasta sull’aia, non ha piovuto per questo fine, cioè affinché esso si guastasse, [Il grano, ai primordi della “civiltà”, era mietuto con un falcetto ricavato da un ramo ricurvo spaccato a metà in senso longitudinale nel quale inserivano pezzetti di selce (tipo di pietra tagliente) che fungevano da denti] ma questo è accaduto per accidente. E, quindi, nulla vieta che questo stato di cose si verifichi anche nelle parti degli esseri viventi [la constatazione emergente dagli incroci prodotti arriva ad essere traslata anche agli esseri viventi. Esse parti infatti avrebbero potuto comporsi per spinte non rispondenti ad un fine.] e che, ad esempio, per necessità i denti incisivi nascano acuti e adatti a tagliare, quelli molati, invece, piatti e utili a masticare il cibo; ma che tutto questo avvenga non per tali fini, bensì per accidente. E così pure delle altre parti in cui sembra esserci la causa finale. [A essere messa in dubbio è, in ultimo, una tale causa finale e però provenienti siffatte considerazioni da confronti e da ipotesi.]

E, pertanto, quegli esseri, in cui tutto si è prodotto accidentalmente, ma allo stesso modo che se si fosse prodotto in vista di un fine, si sono conservati per il fatto che per caso sono risultati costituiti in modo opportuno [Aristotele appare anticipare Darwin, il quale tuttavia sperimenta tali eventi. Una natura, dunque, potrebbe produrre casualmente talune caratteristiche che risultano poi funzionali alla conservazione di essi esistenti]; quanti altri, invece, non sono in tale situazione, si sono perduti o si van perdendo, come quei buoi dalla “faccia umana” di cui parla Empedocle [Aristotele fa leva infatti su quanto accaduto o comunque riportato al punto tale da muovere le riflessioni. Alcune specie sono rilevate, infatti, essersi estinte].

Questo, o su per giù questo, è il ragionamento che potrebbe metterci in imbarazzo: ma è impossibile che la cosa stia così. [Rispetto a quello che possiamo ritenere un ragionamento incentrato sulle tesi degli avversari, Aristotele si accinge ora a produrre quello diverso.] Infatti, le cose ora citate e tutte quelle che sono per natura, si generano in questo modo o sempre o per lo più, mentre ciò non si verifica per le cose fortuite e casuali. [Proprio la costanza di un tale dispiegarsi porta Aristotele ad optare per la tesi del finalismo. Un fine, infatti, appare indirizzare ad un’unica conclusione e organica.] Difatti, pare che non fortuitamente né a caso piova spesso durante l’inverno [se di inverno piove di più, sembrerebbe questa l’argomentazione di Aristotele, c’è un motivo, che lo induce a ritenere un fine che però potrebbe essere rappresentato anche da una causa efficiente]; ma sotto la canicola, sì (mordeva il caldo come un cane); né che ci sia calura sotto la canicola; ma in inverno, sì. Dal momento che, dunque, tali cose sembrano generarsi o per fortuita coincidenza o in virtù di una causa finale (o per una causa che spinge in un modo casuale o in base ad una causa finale), se non è possibile che esse avvengano né per fortuita coincidenza né per caso, allora avverranno in vista di un fine. [La ritenzione è vista derivare dalla negazione delle altre possibilità, ammesse che siano o constate. A non essere prodotte, tuttavia, sono proprio le motivazioni che escludono le altre.] Ma tutte le cose di tal genere sono sempre conformi a natura, come ammettono anche i meccanicisti. [Proprio su una conformazione giunge a ricavare che a essere presente sia un fine. In caso contrario gli elementi dovrebbero rispondere semplicemente alla spinta, benché anche questa risultante da costituzioni così come configurantesi anche nel loro permanere ovvero continuare in siffatti termini.] Dunque, nelle cose che in natura sono generate ed esistono, c’è una causa finale.

Inoltre, in tutte le cose che hanno un fine, in virtù di questo si danno alcune cose prima, altre dopo. [Quelle, dunque, che presentano un fine, sembrano esprimere organicamente un prima e un dopo anziché dispiegarsi per quanto venuto a concretizzarsi quando non per puro caso, fatto questo che a questo punto dovrebbe essere escluso.] Quindi, come una cosa è fatta, così essa è disposta per natura e, per converso, come è disposta per natura, così è fatta, purché non vi sia qualche impaccio. [a essere applicata è ancora la precedente argomentazione, che, abbiamo visto, potrebbe valere per altra causa,] Ma essa è fatta per un fine; dunque per natura è disposta ad un tale fine. [l’affermazione appare rispondere a una tautologia] Ad esempio: se la casa facesse parte dei prodotti naturali, sarebbe generata con le stesse caratteristiche con le quali è ora prodotta nell’arte (perché io metto insieme le pietre per avere un fine); [tanto significa traslare su una natura quanto rilevato interessare l’uomo] e se le cose naturali fossero generate non solo per natura, ma anche per arte, essere sarebbero prodotte allo stesso modo di come lo sono per natura. Ché l’una cosa ha come fine l’altra.

Insomma: alcune cose che la natura è incapace di effettuare, l’arte le compie; [proprio una tale considerazione appare sottrarre alla natura parte almeno di quanto pure in precedenza attribuito] altre, invece, le imita. E se, dunque, le cose artificiali hanno una causa finale, è chiaro che è così anche per le cose naturali [potrebbe, tuttavia, non essere affatto così, tenuto conto che si tratta di elementi semplicemente associati]: infatti, il prima e il poi si trovano in rapporto reciproco alla stessa guisa tanto nelle cose artificiali quanto in quelle naturali. [il discorso arriva a fare leva su quanto constatato e atteso.] Ma in particolar modo ciò è manifesto negli altri animali che non agiscono né per arte, né per ricerca, né per volontà: tanto che alcuni si chiedono se alcuni di essi, come i ragni e le formiche e altri di tal genere, lavorino con la mente o con qualche altro organo [larga parte della robotica attuale ritiene di non lavorare più con l’intelligenza, ma con una riproduzione automatica di quelli che sono recepiti quali istinti]. E per chi procede così gradatamente, anche nelle piante appare che le cose utili sono prodotte per il fine, come le foglie per proteggere il frutto. [Una tale finalità è superata dalle scoperte successive.] Se, dunque, secondo natura e in vista di un fine la rondine crea il suo nido, e il ragno la tela, e le piante mettono le foglie per i frutti, e le radici non su ma giù per il nutrimento, è evidente che tale causa è appunto nelle cose che sono generate ed esistono per natura (agiscono per un fine). [Un tale fine è, ancora una volta, ammesso.] E poiché la natura è duplice, cioè come materia e come forma, e poiché quest’ultima è il fine e tutto il resto è in virtù del fine, questa sarà anche la causa, anzi la causa finale. [È appena il caso di considerare che se piuttosto facile appare ritenere che il bambino si muova e cresca in vista di essere adulto, sarebbe piuttosto sciocco reputare che l’adulto proceda per diventare vecchio e il vecchio si muova per approdare alla morte].

Del resto si riscontrano errori anche nei prodotti dell’arte (il grammatico scrive in modo scorretto e il medico sbaglia la dose del farmaco); è ovvio, quindi, che ciò può accadere anche nei prodotti naturali. Se vi sono, dunque, cose artificiali in cui ciò che è esatto, è tale in virtù della causa finale, mentre nelle parti sbagliate pur si è mirato ad un fine, ma non si è riusciti a conseguirlo, la medesima cosa avverrà anche nei prodotti naturali, e i mostri risultano sbagli di quella determinata causa finale. [Una causa dovrebbe essere trovata anche a esso errore anziché attribuirlo semplicemente al caso.] E, nelle fondamentali strutture fisiche, se i bovini non fossero stati in grado di raggiungere un certo termine o un certo fine, ciò si sarebbe dovuto far risalire alla corruzione di un qualche principio, come è corrotto il seme nel caso dei mostri.

Aristotele, Fisica, 198b-199b, in Opere, a cura di G. Giannantoni, Laterza, Roma-Bari 1973

Una lezione del prof. Addona riportata da Francesco D’Andrea, I C.

INDUZIONE E DEDUZIONE. INTUIZIONE E DIMOSTRAZIONE

Ogni dottrina ed ogni apprendimento, che siano fondati sul pensiero discorsivo si sviluppano da una conoscenza preesistente. [Si tratta, infatti, di procedere dal noto così che possano emergere elementi non al momento espliciti e che quindi arrivano a essere conosciuti. Questi non derivano comunque da altro che da ciò da cui si muove. Se con la dimostrazione si pongono in essere alcuni passaggi, pure questi non risultano estranei all’intuizione, la quale, infatti ciascuna volta coglie le relazioni e allora che tanto non accada quella si rifà al precedente che arriva a fare da garanzia ovvero da base,] Ciò risulta chiaro, quando si considerino tutte le dottrine e le discipline: in realtà, alle scienze matematiche ci si accosta in questo modo, e lo stesso avviene riguardo a ciascuna delle altre arti. [Diverso il discorso che riguarda l’intuizione. Per questa arrivano ad essere colti immediatamente i termini e nelle loro relazioni. Per quanto concerne l’induzione si tratta di quel processo per il quale si va a costruire il generale sommando i particolari. Con una tale operazione non si perviene ad una universalità e quindi ad una necessità allora he da un tale apparato di “deduca” il particolare.] […]

D’altro lato, noi pensiamo di conoscere un singolo oggetto assolutamente – non già in modo sofistico, cioè accidentale – non per l’aspetto, ma proprio conoscendolo quando riteniamo di conoscere la causa in virtù della quale l’oggetto è, sapendo che essa è causa di quell’oggetto [Aristotele sembra abbandonare il percorso per il quale un qualcosa arriva a essere ritenuto in termini generali per volgersi all’oggetto considerato nel suo essere ovvero al di là dei vari aspetti o accidenti]

[…] ora però chiamiamo sapere il conoscere mediante dimostrazione solo chi sa dimostrare quello che dice, sa. Per dimostrazione, d’altra parte, intendo il sillogismo scientifico, e scientifico chiamo poi il sillogismo in virtù del quale, per il fatto di possederlo, noi sappiamo. Se il sapere è dunque tale, quale abbiamo stabilito, sarà pure necessario che la scienza dimostrativa si costituisca sulla base di premesse vere, prime, immediate, più note della conclusione [il discorso infatti resta incentrato sulle condizioni con i passaggi che, a propria volta, non debbono contenere errori poiché, ove presenti, questi si riversano sulle conclusioni] […] In realtà, un sillogismo potrà sussistere anche senza tali premesse vere, [ma da una dimostrazione su tanto incentrata non potrebbe che emergere il falso ovvero quanto derivante da siffatte premesse].

 Aristotele, Analitici secondi, I, 71a-b, trad. it. Di G. Colli, in Opere, cit., vol. 1, pp. 259, 261-263

Articolo scritto da Francesco D’Andrea, I C. da una lezione del prof. Addona.
IL SILLOGISMO COME FORMA LOGICA PERFETTA
Una volta stabilite queste precisazioni, possiamo dire ormai attraverso quali elementi, in quali occasioni ed in qual modo si produca ogni sillogismo; in seguito si dovrà parlare della dimostrazione. Occorre invero trattenere del sillogismo prima che della dimostrazione, poiché il sillogismo ha un grado maggiore di universalità la dimostrazione può essere relativa solo agli angoli interni di un triangolo, invece il sillogismo vale quasi per tutto. La dimostrazione è infatti un particolare sillogismo, mentre non tutti i sillogismi sono dimostrazioni perché alcune volte si esce dal discorso e Aristotele l’aveva ben capito.

Orbene, quando tre termini stanno tra di essi in rapporti tali, che il minore sia contenuto nella totalità del medio, ed il medio sia contenuto, o non sia contenuto, nella totalità del primo il medio sia contiene sia è contenuto, è necessario che tra li estremi sussista un sillogismo perfetto. Da un lato, chiamo “medio” il termine che tanto è contenuto esso stesso in un altro termine, quanto contiene in sé un altro termine, e che si presenta come medio anche per la posizione; d’altro lato, chiamo “estremi” sia il termine che è contenuto esso stesso in un altro termine, sia il termine in cui un altro termine è contenuto.
                                                                                                  


    A       B

B       C

A       C

In effetti, se A si predica di ogni B, e se B si predica di ogni C, è necessario che A venga predicato di ogni C. già prima infatti si è detto in che modo intendiamo il venir predicato di ogni oggetto.
Similmente poi, se A non si predica di nessun B, e se B si predica di ogni C, A non apparterrà a nessun C ragionamento scontato dato che viene messo fuori. Se il primo termine si predica del secondo, ma il terzo non è contenuto nel secondo, allora il terzo non sarà contenuto nel primo. Per contro, se il primo termine appartiene ad ogni oggetto che può essere indicato dal termine medio, e se il medio non appartiene a nessuno degli oggetti che possono venir indicati dal termine minore, tra gli estremi non sussisterà sillogismo, poiché non risulta nulla di necessario per il fatto che si diano queste premesse se non si introduce che Socrate è uomo, è chiaro che non si avranno conseguenze. In effetti, può accadere che il primo termine appartenga ad ogni oggetto ed a nessun oggetto, tra quelli che possono venir indicati dal termine minore ragiona sia in positivo che in negativo, cosicché non diventa necessaria né una conclusione particolare, né conclusione universale. Non sussistendo così alcuna conclusione necessaria, attraverso queste premesse non si darà sillogismo non ci sarà sillogismo se non ci saranno queste condizioni.
Se poi in una premessa un termine si congiunge in forma universale con l’altro, e nella seconda premessa un termine si congiunge in forma particolare con l’altro, è necessario che il sillogismo risulti perfetto, quando la premessa universale, sia affermativa che negativa, comprende l’estremo maggiore, mentre la premessa particolare, che sia affermativa, comprende l’estremo minore, ed è invece impossibile che si dia sillogismo quando la premessa universale comprende l’estremo minore, oppure i termini si comportano in qualsiasi altro modo. Chiamo “estremo maggiore” il termine in cui è contenuto il medio, ed “estremo minore” il termine che è subordinato al medio. Supponiamo infatti che A appartenga ad ogni B, e che B appartenga a qualche C. in tal caso, se il venir predicato di ogni oggetto consiste in ciò che si è detto da principio, è necessario che A appartenga a qualche C. Inoltre, se A non appartiene a nessun B, e se B appartiene a qualche C, è necessario che A non appartenga a qualche C; si è pure definito, infatti, in qual senso intendiamo l’espressione “venir predicato di nessun oggetto”. Di conseguenza, vi sarà sillogismo perfetto.

(Aristotele, Analitici primi, I, 25b-26a, trad. it, di G. Colli, in Opere, cit., vol. 1, pp. 90-92)

Francesco D’Andrea, I C.
L’azione del motore immobile
[…] esiste, quindi, qualcosa che è sempre mosso secondo un moto incessante - dato per scontato che ha trovato che il movimento esiste sempre, noi troviamo un qualcosa che è continuamente mossa, - e questo moto è la conversione circolare - Aristotele è convinto che il moto per eccellenza sia quello circolare, perché continua tornando sempre al punto di partenza e non va all’infinito - (e ciò risulta con evidenza non solo in virtù di un ragionamento - con il ragionamento coglie che, se il moto non è circolare, è rettilineo e quindi va all’infinito, ma l’infinito Aristotele non lo può ammettere perché deve trovare un principio, - ma in base ai fatti - fatti osservati? -), e di conseguenza si deve ammettere l’eternità del primo cielo e - ammette quindi che, siccome gli astri girano in modo circolare, il moto circolare è eterno dato che gli astri sono eterni. Qui però dice sciocchezze perché applica le proprie considerazioni del pensiero a una fisica che non risulta corrispettiva ai fatti, ma più al proprio pensiero. - Ed esiste, pertanto, anche qualcosa che provoca il moto del primo cielo dato per scontato che il moto c’è, deve ammettere una causa e questa provoca il moto del primo cielo, e probabilmente anche di tutti gli altri. Ma poiché ciò che subisce e provoca il movimento è un intermedio, c’è un qualcosa che provoca il movimento senza essere mosso, un qualcosa di eterno che è, insieme, sostanza e atto perché? Se fosse potenza ammetterebbe movimento ad essere, quindi non possiamo ammettere movimento in potenza perché arriverebbe all’infinito e per questo lo mette in atto.
Un movimento di tal genere [il movimento del primo cielo] è provocato sia da ciò che è oggetto di desiderio sia da ciò che è oggetto di pensiero siccome è atto, non può desiderare qualcosa di concreto e qui Aristotele è convinto che si tratti di un atto puro senza materia. Perché questo movimento deve attrarre e non può muovere? Dovrebbe compiere un lavoro, invece lui, essendo perfetto in sé, lo attrae. Ma questi due oggetti, se vengono intesi nella loro accezione più elevata, sono tra loro identici perché tu desideri ciò che pensi e pensi ciò che è effettivo. Infatti, è oggetto del nostro desiderio il bello del suo manifestarsi quando si manifesta lo consideriamo perché vogliamo unirci, mentre è oggetto principale della nostra volontà il bello nella sua autenticità quando lo riconosciamo come autentico e migliore di tutti. Passaggio logico; ed è più esatto ritenere che noi desideriamo una cosa perché ci si mostra bella, anziché ritenere che essa ci sembri bella per il solo fatto che noi la desideriamo ma è possibile che in tanti secoli ancora non si sia capito?: principio è, infatti, il pensiero.
(Metafisica, XII, 7, 1072°, in op. cit, pp. 354-355).

Francesco D’Andrea, I C.

lunedì 13 marzo 2017

COME L’ECCESSIVA CRITICA TENDE A FALSIFICARE

A proposito della premessa maggiore del sillogismo

Nel nostro libro di filosofia è riportato “per Aristotele, infatti, il rapporto tra due determinazioni di una cosa si può stabilire solo sulla base di ciò che essa è necessariamente, cioè sulla base della sua sostanza.  Per tornare al nostro esempio, volendo decidere se l’uomo è mortale, non si può che guardare alla sostanza dell’uomo (a ciò che l’uomo non può non essere)”. Abbiamo apprezzato l’impegno e l’acume dell’autore di queste considerazioni di spingersi in un’indagine approfondita al punto da ritenere alla base del sillogismo una sostanza, così come Aristotele in alcuni passi ha voluto proporre. Tanto però non appare rispondere a quello che Aristotele riteneva a proposito della costruzione di essa premessa. Egli perviene al concetto dopo avere osservato gli individui. Da una tale serie perviene alla costruzione delle premesse. Diverso e necessario risulterebbe, invece, il discorso allora che fosse possibile cogliere la sostanza così che una predicazione si trovasse da essa a derivare. La premessa maggiore, infatti, non risulta affidata a una sostanza, rappresentando una costruzione che non può costituire un universale, fatto questo dal quale si trova a derivare una validità delle conclusioni. Una eventualità diversa non arriva dunque ad essere esclusa. Di tanto Aristotele era ben consapevole.

Articolo scritto dalla IC da una lezione del professore Addona

giovedì 9 marzo 2017

IL TEMPO NELLA CONCEZIONE ARISTOTELICA

Aristotele, che è convinto che il movimento non possa nascere, al punto da risultare corrispettivo ad un principio che assume così come primo motore immobile, reputa, in ogni caso, che o c’è sempre o non può prodursi […] “lo stesso dicasi per il tempo (giacché il prima e il poi non potrebbero esistere se non esistesse il tempo).” Aristotele, oscillando tra il ritenerlo un qualcosa di intrinseco e incentrato su un esterno, percepisce la difficoltà di una individuazione di quello. Egli recepisce quella stessa che rappresenterà la concezione moderna di quello, fatto questo che però perviene ad abbandonare per quell’essere sul quale ritiene incentrata la conoscenza. Cos’è dunque esso tempo? Se c’è un tempo in esso si distinguono in un prima e un dopo gli elementi che, infatti, in esso vanno a prendere corpo. Potrebbe, altresì, essere portato dalle cose allora che arrivassero a disporsi per se stesse al punto da esprimere quello. Quello potrebbe preesistere, dunque, o nascere con quelle. Considerato un qualcosa, fatto questo che, per Aristotele, dovrebbe valere ad indicare una sua realtà, così come accade al movimento, deve esserci sempre. Nel momento stesso, infatti, in cui ci chiediamo cosa ci fosse prima di questo, staremmo già parlando di tempo che però arriva ad interrompersi per fare spazio ad un niente ovvero ad un suo non essere in una siffatta configurazione. Esso tempo giunge così a essere ritenuto continuo come continuo è stato concepito il movimento. Le cose che si muovono sono misurate dal tempo o meglio il movimento rappresenta il tempo stesso. Il tempo, non risultando recuperato dall’esistente, ovvero non essendo recepito nel suo dispiegarsi soggettivo – Aristotele, infatti, non arriva a caricare il soggetto né di questa né di altre realtà – non può che risultare affidato alle cose o essere concepito esso stesso come quel qualcosa nel quale le cose si muovono. Aristotele passa in rassegna le varie possibilità ancorché, in ultimo, lo affidi a quella realtà che già ha per altri versi assunto. Egli non perviene a reputare la continuità all’infinito di un tale movimento relegandolo a quello locale rappresentato a livello spaziale da quello circolare. Un movimento rettilineo o comunque non convergente su se stesso porterebbe all’infinito risolto da quel motore immobile che non ha nemmeno bisogno di produrre una causa efficiente al punto che muove come fine. In esso così come principio si risolve il tutto, ancorché sia costretto ad ammettere intelligenze per i cieli reputati non decomporsi come accade al materiale che non partecipa di quelli e della loro realtà. Un basso e un alto evitati con quel moto perfetto ovvero a dire circolare pure appaiono tornare come superiore ed inalterabile ed inferiore decomponentesi. Una causa motrice, pure affidata a potenza e atto, non appare risolvere non potendosi tra l’altro scindere essa potenza da quell’atto pure ritenuto precedere e sostenere il tutto.

Metafisica, op. cit. XII, 6, 1071b, in op. cit., pp. 351-352

Articolo scritto da Francesco D’Andrea, I C da una lezione del prof.  Addona.

lunedì 6 marzo 2017

ARISTOTELE TRA UNA RICONOSCENZA VERSO IL MAESTRO E LA VERITÀ

Aristotele, che Dante chiama “maestro di coloro che sanno”, da Stagira, dove era nato, si trasferisce ad Atene a diciassette anni dove divenne discepolo di Platone. Alla morte del maestro, fu assalito da un dubbio, riportato nella famosa affermazione latina “amicus Plato, sed magis amica veritas”. Il problema che lo assillava era: continuare a ritenere la dottrina di Platone, che l’aveva fatto diventare il massimo scienziato del tempo (e forse del mondo), o seguire quello che a lui sembrava più giusto. Alla fine optò di distaccarsi dal maestro e di seguire, quindi, il suo pensiero.

La portata di una tale risoluzione può essere ritenuta storica ed emblematica sotto l’aspetto teoretico e pratico. Non si può accondiscendere a quello che ritiene un amico solo per far piacere a costui e mantenere in piedi un rapporto anche magari molto appagante. Se l’amico è colui che sostiene e al quale affidare il proprio sé magari più recondito, pure non può essere sottaciuto l’errore che eventualmente commette. Certo non si rivolgerà a lui in termini da massacrarlo o farlo dispiacere ma interverrà perché possa migliorarsi. Ove non si esponesse resterebbero entrambi bloccati in una dimensione non valida perché non sostenibile. Quanto si presenta attuale una tale disposizione! Spesso, infatti notiamo associazioni tra persone che si autoglorificano restando in quel loro stato che possiamo ritenere invalidante ed offensivo del giusto solo sul quale può reggere una società intersoggettivamente espressa. Quanto non si riconosce possibile ad un cittadino non può essere tollerato in quella persona con la quale si condividono i momenti più belli o anche tristi. Un soggetto non può risultare che per quell’universalità nella quale potere essere riconosciuto senza scadere in una esistenzialità che non possa in alcuno modo essere sostenuta. Da tanto si trovano a derivare quelle contraddizioni rappresentate, altresì, dall’uso di due pesi e due misure. Al di là dell’unità per la quale una identificazione a dispiegarsi possono essere solo sdoppiamenti, annullanti, come tali, quella che pure tende a presentarsi come la stessa persona, fatto questo che non può risultare né ad una sua richiesta né a quelle di altri. Da tanto la validità, dunque, teoretica e pratica di una ricerca filosofica che arriva a fare emergere i termini per i quali essere.

 

Aristotele fu quasi presago di se stesso. Ritenne, infatti, che quando un filosofo abbia prodotto rilevazioni e tesi molto consistenti arriva quasi a bloccare i discepoli. Tanto dovrebbe fare da monito a quei docenti che anziché rapportarsi con gli allievi e costruire insieme senza apparire su un altro pianeta per una cultura profusa spesso si esibiscono in quella che potremmo anche ritenere una danza ammaliante e però, proprio in quanto tale, ergere un muro che poi risulterà difficilissimo da valicare per procedere oltre su quella strada tracciata dall’indagine critica che non può che accomunare.

Tra tante cose meravigliose che Aristotele disse forse due possono apparire da segnalare:

La possibilità della comunicazione e le individuazioni etiche.

                                                           

                                                                       

Lo scopritore della logica formale rende astratto e funzionale quello che forse era già insito nel principio di Parmenide. L’identità non risulta un tutt’uno con l’essere ma con ciò che arriva a essere individuato. Due persone possono ben essere in contrasto su un argomento, ma stanno comunicando perché entrambe hanno capito di cosa si sta parlando. Con un tale principio, nella famosa formulazione debole, forte e del terzo escluso Aristotele perviene a ritagliare uno spazio a quella conoscenza sottratta oramai alla retorica dei sofisti.

Un tale principio non si può insegnare: rappresenta infatti la condizione sulla quale procedere.

Altra prerogativa che spetta propriamente all’alunno è la scelta del maestro.

Articolo scritto da Francesco D’Andrea, I C da una lezione del prof. Addona

LA SOSTANZA COME SINOLO DI MATERIA E FORMA
   sinolo=composto (dal greco σύνολος)
Poiché (a causa del fatto che) i filosofi (i filosofi naturalisti, dato che sono loro a trattare dell'essere) sono generalmente (quasi tutti) d'accordo sulla sostanza nella sua accezione (significato) di sostrato (ciò che sta sotto) e materia – vale a dire sulla sostanza che è in potenza (se una persona è alta una determinata altezza, questa fa da sostrato,ed è in potenza che diventi più alta)-, ci resta da chiarire quale sia la sostanza delle cose sensibili nella sua attualità (quando si manifesta in che consiste).

[...]dovendo definire una soglia (della porta), noi diremo che essa è un pezzo di legno o una pietra che giace in una determinata maniera, e, dovendo definire una casa, noi diremo che essa è mattoni e legna che giacciono in questo altro modo […], e, dovendo definire un pezzo di ghiaccio, noi diremo che è acqua congelata o condensata in un determinato modo, e che l'accordo musicale è una determinata mistione di acuto e di grave (toni acuti e toni gravi. Ad esempio nella poesia i toni si trovano negli accenti tonici,ossia dove cade il tono della voce nella parola); e allo stesso modo a proposito delle altre cose. Dunque per definire una qualsiasi cosa ne descriviamo le componenti.
Comunque, da queste considerazioni risulta evidente che l' atto è diverso secondo la diversità della materia,(naturalmente, poiché diversa materia presenta diverse componenti) e così anche il discorso definitorio (generale): difatti, in alcuni casi esso è la composizione (unione di elementi facilmente distinguibili), in altri è la mescolanza (unione di elementi non distinguibili), in altri qualcuno degli altri modi suddetti. Perciò, quando si intende dare una definizione, quelli che definiscono, ad esempio, una casa dicendo che essa è pietre, mattoni e legna, parlano della casa in potenza (dunque elencandone le componenti); quelli che, nel definirla, aggiungono che essa è un rifugio che è in grado di preservare i beni e i corpi e che è qualche altra cosa di tal genere, ne determinano l' atto (quindi la funzione); quelli, infine, che mettono insieme tutte e due queste cose, parlano di una terza sostanza, che è anche il composto delle altre due precedenti […].
da queste considerazioni risulta con evidenza qual è la sostanza sensibile e quali sono i modi della sua esistenza: infatti, sotto un profilo essa è come materia, sotto un altro è come forma e, in un terzo senso, essa è il composto di queste due cose.

(Metafisica, VIII, 2, 1042b; VIII, 2, 1043a)


Chiara De Mizio, IC.