domenica 27 novembre 2016

IL RECUPERO, DA PARTE DI PLATONE, DI UNA CONOSCENZA NON RELATIVA: IL PROTAGORA

Socrate chiede a Teeteto cosa fosse per lui la conoscenza; da notare, per inciso, che il campo di studio si è oramai spostato dall’ ambiente naturalistico a quello umano, a cominciare proprio dai sofisti. Il Socrate che Platone fa parlare ritiene che l’interlocutore col suo impegno e con l’aiuto di un dio, anche se giovane, può arrivare a capirlo. Teeteto infatti spinto dall’incoraggiamento do Socrate prova a rispondere ed afferma che la conoscenza non sia altro che la sensazione. Socrate si complimenta con Teeteto per la sua risposta (poiché è stata molto chiara e afferma che questa sia la stessa risposta data Protagora, sofista, all’ epoca, molto in voga, possiamo aggiungere, in un modo però leggermente differente. Secondo Protagora infatti l’uomo è misura di tutte le cose.

Una cosa è per me come appare a me, e per te come appare a te. Ad esempio un vento che soffia può risultare freddo o fastidioso per qualcuno o caldo o piacevole per altri. A fare da condizione, è esso percepire dunque che è constatato variare da individuo ad individuo. 

“E dunque fu un uomo di grande sapienza questo Protagora, il quale al pubblico grosso [inteso come ampio ed estraneo prima ancora forse che grossolano] come noi disse queste cose in enigma, ma ai suoi discepoli espose in segreto la verità”. Un tale settarismo che in genere è reputato superato pure non scompare ancorché riportato sotto la voce “segreto di stato” e chiusure similari. Le teorie più importanti ma soprattutto le scoperte scientifiche che rappresentano la forza di uno stato o di una società, vengono ancora raccontate in due versioni, ammesso che siano comunicati gli stessi risultati reputati vitali per un popolo o per una società di affari: una al popolo (modificata), e l’altra veritiera solo agli addetti. Da considerare, perché non molto diversi, sono i cosiddetti diritti d’autore. Se questi rappresentano una condizione per recuperare quel guadagno occorrente a vivere pure, per il resto, sono visti stridere con la concezione della libera circolazione della cultura per fornire a tutti quanto ritrovato in un campo quale che sia a cominciare da quello letterario. Se uno scrittore di romanzi ha un lavoro come docente o giornalista certo sorge il dubbio se sia il caso che si avvalga di quei compensi derivanti da opere. Diverso il discorso per gli editori per i quali sui tratta di una impresa. Io personalmente, quando ho potuto, ho messo alquante pubblicazioni on line scaricabili liberamente.  

Se, dunque, tornando al discorso della conoscenza non alcuna cosa fosse per sé stessa, ovvero per Platone assoluta e perfetta e da una idea rappresentata, non potrebbe darsi nome ad una cosa Ad ognuno questa appare diversa, apparendo a ciascuno diversa. Riducendo il campo a quello umano Aristotele perverrà alla individuazione della possibilità di una comunicazione rappresentata dal principio di identità e nelle sue tre formulazioni. Qualcuno così potrà dire questo vento per me è freddo dopo che è stato riconosciuto il significato dei termini presenti in essa affermazione.

Alcuni studiosi hanno avanzato l’ipotesi che il principio di Protagora riguardasse non il singolo uomo, ma tutti gli uomini, oppure un gruppo di uomini, Tanto appare da escludere poiché ove fosse risultata una convergenza non avrebbe una tale concezione suscitato tanto clamore.

 

sabato 5 novembre 2016

A proposito delle trasformazioni delle parole e della cultura critica

Troviamo una parola su un libro:

Stuttgard

Ci viene in mente, a tal proposito, Stoccarda.

O ancora Lussemburgo, Asburgo, Amburgo così come suonano in italiano.

Cerchiamo di addentrarci in un’analisi, come si procede in ogni disciplina scientifica, a cominciare dalla matematica. Individuiamo le lettere procedendo in una comparazione. Potremmo segnare quelle uguali e diversamente quelle diverse.

S t u t t g a r d

S t o c c r d a

Allora che sappiamo che i tedeschi accoppiano due parole per formarne una, ci viene da osservare che Stutt potrebbe essere separato da Gard. Ove riscontrassimo altre parole presentanti una di queste parti si potrebbe tentare di pervenire al significato di una di queste facendo leva sul contesto. Da questo ad emergere magari è che si tratti di città o altro.

Noi sappiamo altresì che persone, soprattutto non addentro agli studi, trovano difficoltà nel fermarsi per riprendere poi la pronuncia di una parola. Quello che in altri termini arriva a essere ritenuto iato appare superato inserendo lettere che permettano una espressione unica e per tanto più facile. A questo punto legano le due parole. Abbiamo recepito criticamente quello che sappiamo dal ginnasio, ossia trattarsi di assimilazione e di contrazione.

La T, che in questo caso si presenta ripetuta, cade e la consonante successiva si raddoppia rafforzandosi. Sappiamo altresì che la G è sostituita dalla C con un suono forte come avviene, per il resto nei linguaggi A e B del codice dantesco che affronteremo in seguito. Viene fuori quindi che la G diventata C si raddoppia. Sappiamo anche che la T è intercambiabile con la D sempre secondo i codici già individuati e per quanto riusciamo a rilevare direttamente allora che consideriamo parole pronunciate in una regione e in un’altra. Noi sappiamo altresì che il latino arcaico si esprime una “o” diventata in seguito “u”, fatto questo che arriva a valere per gli idiomi longobardi che si sono conservati sia nella regine lombarda che in quella piccola da Benevento rappresentata. Noi sappiamo che due sono i codici della commedia di Dante dai quali derivano tutte le varie edizioni e risalgono al Cinquecento.

Uno puntualmente riporta la U (u i dissi u ben s’impingua)

L’altro la O (o i dissi o ben s’impingua)

 

Quello del Sud è detto codice A, quello del Nord è detto codice B.

Riconsideriamo ancora Stoccard. Siccome le parole italiane prevedono la vocale finale, la si aggiunge appunto, ed essendo femminile, quella che un tale genere designa è la “a”. Viene quindi Stoccarda.

Passiamo ora all’analisi degli altri due nomi:

Lussemburgo

Asburgo

Amburgo

La parola comune è “burgo”. Applicando le ipotesi di cui sopra potremmo ricavarne “borgo” e infine castello o città o comunque luogo abitato da un gruppo. La “m” potrebbe avere preso il posto della “n” davanti alla “b”. Tenuto conto che delle altre variazioni a cominciare dalla “f” o dalla “v” a propria volta corrispettiva di una “u”; ua in ciociaro e non solo e non uva, potremmo pensare ad una città di volta in colta di Lussen, di As o Aus, o di An-Am.

A questo punto ci sembra opportuno riflettere sullo studio delle lingue nelle scuole, a cominciare da quelle classiche. A cosa serve infatti imparare tante eccezioni o nozioni che spesso sconfinano nella tecnica? Forse allo studioso? Ma lo studioso non si forma all’Università e ancora in seguito? Al giovane studente, che affronterà il percorso universitario, non servirà se non la “logica” con la quale ha individuato quelle stesse, anche se non tutte, e affronterà le varie discipline e le specializzazioni?

Per ulteriori approfondimenti allargati anche ad altri ambiti disciplinari si rinvia a Giuseppe Addona “Una Scuola per una Cultura Possibile” Bonanno editore.

Articolo scritto dalla I C da una lezione del prof. Addona

I PROBLEMI INERENTI AL PRINCIPIO

Il principio, proprio in quanto tale, non ammette dimostrazione ovvero supporto alcuno risultando esso stesso la condizione di quanto ritenuto derivare. Allora che a essere assunte sonno le omeomerie dal greco omos (stesso) e meros (parte) sono esse a rappresentare intera la realtà come parti che non possono per quanto ripartite essere distrutte. Ove tanto accadesse a scomparire sarebbe la stessa realtà da esse costituita. Stesso discorso per gli atomi di Democrito con i quali si è pervenuti ad una astrazione maggiore risultando questi definiti in negativo: non ulteriormente divisibili. Dalla composizione di questi in un caso e di quelle in un altro sono reputate discendere le cose che, appunto, si formano. Ove gli elementi costitutivi di esso intero mondo fossero finiti ammetterebbero altro da sé. A una tale considerazione era pervenuto Aristotele il quale “indagando dapprima l’opinione di Anassagora”, ci indica anche il motivo per cui costui “sia giunto a una tale supposizione.” Se a scomparire fossero essi elementi, omeomerie o atomi, a restare non sarebbe alcunché con il qual formarsi i composti, fatto questo che aveva fatto emergere Zenone con le sue famose confutazioni scambiate per lungo tempo per dimostrazioni. Lo stesso discorso vale per il principio di Pitagora dai numeri rappresentato. Questi devono potere esprimere quella realtà ancorché ridottissima per la quale configurarsi i restanti elementi tutti. Quanto deriva dipende, dunque, da quanto assunto e ritenuto dispiegarsi in modalità magari anche per l’intervento di elementi aggiuntivi che risultano però più difficili da essere compresi, ciascuna volta, in un principio.

 

 

A siffatte concezioni ciascuno di tali filosofi giunge ritenendo che niente si produca dal niente, discorso questo emblematicamente portato avanti da Parmenide relativamente all’essere. Un tale principio arriva a essere mantenuto dai filosofi che si susseguono i quali, per rendere spiegazione del movimento e delle composizioni lo considerano costituito da più elementi.

Una lezione del prof. Addona riportata da Francesco D’Andrea I C.

DALL’ESPERIENZA ALLA SCIENZA

“Come si fa a fare scienza senza conoscerne il metodo?”

Le esperienze sono rappresentate da quella conoscenza che si è formata su un insieme di elementi a partire dalle sensazioni. Essa benché non possa essere considerata quale una semplice somma pure non si allontana da una configurazione su una sintesi incentrata. Se la serie di esse osservazioni non può risultare completa ovvero non raggiungere quella universalità da cui una necessità di quanto pure predicato va incontro a quello che possiamo ritenere un altro problema, rappresentato specificamente dal non potersi procedere al di là di esso insieme così come venuto a costituirsi.

Possiamo osservare innumerevoli volte un oggetto cadere o più oggetti senza andare al di là di una conoscenza rappresentata dal fatto che un corpo lasciato senza appoggi cade. Al di là del fatto che potremmo trovarci di fronte ad un corpo, quale un palloncino gonfiato con gas più leggero dell’aria, che lasciato, anziché cadere, è visto volare via ovvero muoversi all’opposto delle precedenti osservazioni, senza pervenire ad una “legge” di caduta dei corpi. Di esse esperienza appare altresì potere essere trasmessa soprattutto una sintesi, ancorché ci si possa affidare a quanto, raccontato riesca in un certo modo ad essere recepito nonché magari piuttosto rielaborato.

Su un tale discorso arriva ad inserirsi quella che Aristotele chiamava arte benché non sempre distinguendola da quella che pure riteneva scienza. Al di là di tanto noi consideriamo arte la capacità di mettere insieme mattoni o pezzi di legno in modo tale da ottenere un prodotto qualificato: una casa in un caso e un mobile pregiato nell’altro. L’artigiano si è servito della sua arte nel mettere insieme gli elementi fino ad intervenire per ottenere l’effetto in caso di “riluttanza” da parte di fattori magari intervenuti. Egli tuttavia potrà dare indicazioni al discepolo perché obiettivi siano raggiunti ma non potrà spiegare tutti i vari passaggi poiché non chiari risultano gli elementi stessi sui quali interviene. Un carrozziere potrebbe raccomandare così di percuotere una lamiera perché possa raggiungere, anche se non interamente, la posizione originaria. A non risultare trasmissibili sono i termini non individuati e soprattutto le cause. Individuazione che può essere data, ancorché non in modo assoluto, dalla misurazione in un sistema intersoggettivo.

Se dal particolare, altresì, non emerge il generale ossia l’universale, pure da una teoria deve risultare il recupero di fatti specifici così che a discenderne possa essere una concretezza. Non appare, dunque, possano viaggiare isolate teoria e pratica. Quell’ingegnere che non sapesse risolvere un problema pratico che pure dovrebbe essere contemplato in quella conoscenza teorica, non sarebbe, a tutti gli effetti, un ingegnere.

Se in geometria, non prendiamo in considerazione una sfera o un rettangolo particolari, ma quello pensato in certi termini pure non possiamo non collegare i risultati ai quali siamo pervenuti ai casi concreti che si dispiegano e una risoluzione chiedono.

Al di là delle esperienze, dunque, che arrivano a formarsi anche altri animale e sulle quali fare leva per mantenersi in vita, vediamo cosa connota il passaggio ad una scienza.

Gli elementi cessano di rappresentare un qualcosa empiricamente rilevato per essere “tradotti” con una misurazione. Quello che prima era indicato quale un oggetto diventa un termine misurato. Similmente accade per i vari elementi rappresentativi di una esperienza a cominciare da una distanza percorsa e da un tempo nel quale un fenomeno è rilevato.

Si tratta, dunque, di eliminare per quanto possibile le variabili facendole diventare termini noti rintracciabili per la misura.

Non un corpo dunque che è visto cadere ma quel corpo di quel peso, con quel volume in un certo tempo per una certa altezza. Per facilitare i calcoli un tale corpo si costruisce con caratteristiche tali da risponde il più facilmente possibile ai calcoli.

Non prendere un corpo con una forma presentante molte variabili poiché queste intervenendo ci costringerebbero a calcoli ai limiti delle possibilità fornite dai termini conoscitivi in atto. Una stessa matita potrebbe, cadendo, posizionandosi diversamente, impiegare un tempo maggiore o minore come vediamo accadere ad una freccia scagliata da un arco da una posizione o da un’altra. Per cominciare a ridurre le variabili adotteremo per l’esperimento una sfera la cui caduta risulta indifferente, risultando la forma solo quella. Anche il peso di questa risulterà poiché appunto misurato ovvero essa sfera sarà stata pesata. Risulterà costruita perché pesi 100 grammi.

Lo stesso discorso vale per l’altezza. Tenuto conto che l’esperimento lo provochiamo assumeremo un’altezza corrispettiva di numero pari.

Procediamo, dunque, a lasciare la sfera magari di un dm3 dall’altezza di un metro e misuriamo il tempo di caduta che diventa, a questo punto, noto. Ripetendo l’esperimento da un’altezza doppia ci aspettiamo che il tempo raddoppi. Dalla misurazione tanto non risulta. Ritenendo di avere sbagliato, riproviamo. Anche se il tempo risulta diverso ance se magari di poco da quello in precedenza rilevato non risulta comunque doppio così come ci aspettavamo.

Che cosa sarà successo?

Proviamo a farlo cadere questa volta da un’altezza di tre metri. Ancora a darsi è quella che al momento possiamo ritenere una sfasatura. Proviamo ancora a farlo cadere da un’altezza quadrupla. Il “problema” si ripresenta. Cambiamo a questo punto il peso della sfera e riproviamo per quelle stesse altezze precedenti. Quanto prima constatato si ripresenta. Cambiamo il volume sostituendo una sfera di 2 dm3 e poi ancora con una di 3 dm3. A restare è quella “diversità”. Proviamo a fare emergere i rapporti e se saremo fortunati troveremo un numero per il quale risultano spiegate essere variazioni. Abbiamo trovato la “legge di caduta dei corpi” almeno in un certo ambito e fino ad ulteriore prova contraria. In altri casi non valgono nemmeno interamente quelle formule che presentano una complessità tale nel tentativo di fare emergere quanto si dispiega in una “misurazione” ricorsa in siffatti termini.

Proviamo con un esempio più semplice. In assenza di misurazioni, i nostri antenati che dovevano comunicare come ottenere una pagnotta non potevano che fare leva su espressioni quali, prendi la farina, aggiungi un po’ di sale, impasta con acqua, aggiungi un po’ di lievito, magari indicato con una manciata, fai stare per una notte, a non essere considerata era la stessa lunghezza di questa, poi inforna e aspetta che sia cotta. Appare evidente che il prodotto risultava alquanto diverso in base ai parametri che risultano quantomeno ridotti allora che ridotte siano le variabili. Tanti chili di farina, con tanto sale (pesato similmente) con tanta acqua e tanti grammi di lievito da lasciare in un ambiente ad una certa temperatura per quel tempo (specificato) e quindi mettere al forno, ad quella temperatura similmente indicata e lasciare per tanto tempo. Ove a non intervenire fossero termini ulteriori e non noti a derivare dovrebbe essere un prodotto piuttosto omogeneo.

Essa scienza, dunque, può essere spiegata perché individuati risultano i termini del processo sul quale si applica.

 Articolo scritto da D’Angelis Flaminia, I C da una lezione del prof. Addona