giovedì 9 marzo 2017

IL TEMPO NELLA CONCEZIONE ARISTOTELICA

Aristotele, che è convinto che il movimento non possa nascere, al punto da risultare corrispettivo ad un principio che assume così come primo motore immobile, reputa, in ogni caso, che o c’è sempre o non può prodursi […] “lo stesso dicasi per il tempo (giacché il prima e il poi non potrebbero esistere se non esistesse il tempo).” Aristotele, oscillando tra il ritenerlo un qualcosa di intrinseco e incentrato su un esterno, percepisce la difficoltà di una individuazione di quello. Egli recepisce quella stessa che rappresenterà la concezione moderna di quello, fatto questo che però perviene ad abbandonare per quell’essere sul quale ritiene incentrata la conoscenza. Cos’è dunque esso tempo? Se c’è un tempo in esso si distinguono in un prima e un dopo gli elementi che, infatti, in esso vanno a prendere corpo. Potrebbe, altresì, essere portato dalle cose allora che arrivassero a disporsi per se stesse al punto da esprimere quello. Quello potrebbe preesistere, dunque, o nascere con quelle. Considerato un qualcosa, fatto questo che, per Aristotele, dovrebbe valere ad indicare una sua realtà, così come accade al movimento, deve esserci sempre. Nel momento stesso, infatti, in cui ci chiediamo cosa ci fosse prima di questo, staremmo già parlando di tempo che però arriva ad interrompersi per fare spazio ad un niente ovvero ad un suo non essere in una siffatta configurazione. Esso tempo giunge così a essere ritenuto continuo come continuo è stato concepito il movimento. Le cose che si muovono sono misurate dal tempo o meglio il movimento rappresenta il tempo stesso. Il tempo, non risultando recuperato dall’esistente, ovvero non essendo recepito nel suo dispiegarsi soggettivo – Aristotele, infatti, non arriva a caricare il soggetto né di questa né di altre realtà – non può che risultare affidato alle cose o essere concepito esso stesso come quel qualcosa nel quale le cose si muovono. Aristotele passa in rassegna le varie possibilità ancorché, in ultimo, lo affidi a quella realtà che già ha per altri versi assunto. Egli non perviene a reputare la continuità all’infinito di un tale movimento relegandolo a quello locale rappresentato a livello spaziale da quello circolare. Un movimento rettilineo o comunque non convergente su se stesso porterebbe all’infinito risolto da quel motore immobile che non ha nemmeno bisogno di produrre una causa efficiente al punto che muove come fine. In esso così come principio si risolve il tutto, ancorché sia costretto ad ammettere intelligenze per i cieli reputati non decomporsi come accade al materiale che non partecipa di quelli e della loro realtà. Un basso e un alto evitati con quel moto perfetto ovvero a dire circolare pure appaiono tornare come superiore ed inalterabile ed inferiore decomponentesi. Una causa motrice, pure affidata a potenza e atto, non appare risolvere non potendosi tra l’altro scindere essa potenza da quell’atto pure ritenuto precedere e sostenere il tutto.

Metafisica, op. cit. XII, 6, 1071b, in op. cit., pp. 351-352

Articolo scritto da Francesco D’Andrea, I C da una lezione del prof.  Addona.

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