lunedì 6 marzo 2017

ARISTOTELE TRA UNA RICONOSCENZA VERSO IL MAESTRO E LA VERITÀ

Aristotele, che Dante chiama “maestro di coloro che sanno”, da Stagira, dove era nato, si trasferisce ad Atene a diciassette anni dove divenne discepolo di Platone. Alla morte del maestro, fu assalito da un dubbio, riportato nella famosa affermazione latina “amicus Plato, sed magis amica veritas”. Il problema che lo assillava era: continuare a ritenere la dottrina di Platone, che l’aveva fatto diventare il massimo scienziato del tempo (e forse del mondo), o seguire quello che a lui sembrava più giusto. Alla fine optò di distaccarsi dal maestro e di seguire, quindi, il suo pensiero.

La portata di una tale risoluzione può essere ritenuta storica ed emblematica sotto l’aspetto teoretico e pratico. Non si può accondiscendere a quello che ritiene un amico solo per far piacere a costui e mantenere in piedi un rapporto anche magari molto appagante. Se l’amico è colui che sostiene e al quale affidare il proprio sé magari più recondito, pure non può essere sottaciuto l’errore che eventualmente commette. Certo non si rivolgerà a lui in termini da massacrarlo o farlo dispiacere ma interverrà perché possa migliorarsi. Ove non si esponesse resterebbero entrambi bloccati in una dimensione non valida perché non sostenibile. Quanto si presenta attuale una tale disposizione! Spesso, infatti notiamo associazioni tra persone che si autoglorificano restando in quel loro stato che possiamo ritenere invalidante ed offensivo del giusto solo sul quale può reggere una società intersoggettivamente espressa. Quanto non si riconosce possibile ad un cittadino non può essere tollerato in quella persona con la quale si condividono i momenti più belli o anche tristi. Un soggetto non può risultare che per quell’universalità nella quale potere essere riconosciuto senza scadere in una esistenzialità che non possa in alcuno modo essere sostenuta. Da tanto si trovano a derivare quelle contraddizioni rappresentate, altresì, dall’uso di due pesi e due misure. Al di là dell’unità per la quale una identificazione a dispiegarsi possono essere solo sdoppiamenti, annullanti, come tali, quella che pure tende a presentarsi come la stessa persona, fatto questo che non può risultare né ad una sua richiesta né a quelle di altri. Da tanto la validità, dunque, teoretica e pratica di una ricerca filosofica che arriva a fare emergere i termini per i quali essere.

 

Aristotele fu quasi presago di se stesso. Ritenne, infatti, che quando un filosofo abbia prodotto rilevazioni e tesi molto consistenti arriva quasi a bloccare i discepoli. Tanto dovrebbe fare da monito a quei docenti che anziché rapportarsi con gli allievi e costruire insieme senza apparire su un altro pianeta per una cultura profusa spesso si esibiscono in quella che potremmo anche ritenere una danza ammaliante e però, proprio in quanto tale, ergere un muro che poi risulterà difficilissimo da valicare per procedere oltre su quella strada tracciata dall’indagine critica che non può che accomunare.

Tra tante cose meravigliose che Aristotele disse forse due possono apparire da segnalare:

La possibilità della comunicazione e le individuazioni etiche.

                                                           

                                                                       

Lo scopritore della logica formale rende astratto e funzionale quello che forse era già insito nel principio di Parmenide. L’identità non risulta un tutt’uno con l’essere ma con ciò che arriva a essere individuato. Due persone possono ben essere in contrasto su un argomento, ma stanno comunicando perché entrambe hanno capito di cosa si sta parlando. Con un tale principio, nella famosa formulazione debole, forte e del terzo escluso Aristotele perviene a ritagliare uno spazio a quella conoscenza sottratta oramai alla retorica dei sofisti.

Un tale principio non si può insegnare: rappresenta infatti la condizione sulla quale procedere.

Altra prerogativa che spetta propriamente all’alunno è la scelta del maestro.

Articolo scritto da Francesco D’Andrea, I C da una lezione del prof. Addona

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